Woody Allen sul divano

Sono giorni davvero difficili; per il mondo, per il nostro paese, per le nostre città. L’economia mondiale, la politica internazionale, perfino la natura ci porgono il conto salato degli errori che abbiamo fatto. Io non sono certo la persona giusta per commentare tutto questo casino. Peraltro, anch’io, personalmente, avrei parecchie cose di cui lagnarmi. Come se non bastasse, stamattina diluvia e questo mi mette di pessimo umore. Ma non mi sembra il caso di aggiungere i miei piccoli guai alla collezione dei disastri del mondo.

Verso la fine di Manhattan, Isaac Davis (Woody Allen), sull’orlo di un improbabile suicidio, decide di ricapitolare, dettandole al registratore, le cose per cui vale la pena continuare a vivere. L’ho sempre trovata una buona idea, anche senza bisogno di toccare il fondo della depressione; tra me e me lo chiamo fare il “Woodyallen sul divano”.

Ecco, questo mi sembra un ottimo momento per fare il Woodyallen sul divano. A costo di ripetermi, avendo fatto qualcosa di simile in un vecchio post, a costo di sembrare un po’ melenso, a costo di andare fuori tema.

Per esempio, nella tragedia, che non può che renderci tristi, mi piace però vedere l’espressione esausta ma determinata dei ragazzi che sono accorsi a spalare il fango per le strade di Genova; mi piace ricordare la stessa espressione negli amici che avevo introno quando, diciassette anni fa, toccò a noi renderci utili, per le strade di Alessandria.

Poi, nonostante tutto e tutti, mi piace il mio lavoro. Mi piace pensare che, magari proprio adesso, qualcuno sta facendo l’amore in una camera da letto che ho progettato, o in una sala, in un bagno, in una cucina o, perché no, su una terrazza.

Mi piace scorgere, nella penombra dell’aula, lo sguardo assorto della studentessa in prima fila che guarda incantata la villa di Gio Ponti che sto spiegando, dimentica finalmente degli appunti che prendeva compulsivamente, degli esami, dei voti e dei crediti didattici. Mi piace pensare che anche lei amerà l’architettura.

Mi piace quando vorrei farmi i cavoli miei, ma devo portare a letto la Luisa e allora salgo di sopra, la aiuto nei piccoli riti serali e poi, un po’ meccanicamente, mi metto a cantarle le canzoni della sera (“il cielo pieno di stelle” e “summertime”, per la precisione, e “con i massaggi”) e, dopo un po’, mi accorgo che lei, sottovoce, le sta cantando insieme a me. Mi piace quando prendo in braccio il Michi e lui, mentre si guarda in giro curioso, mi infila la mano dietro, nel colletto della camicia.

Mi piace guardare di nascosto i miei genitori fare i nonni.

Mi piace guidare di notte sotto la pioggia leggera ma insistente, la famiglia, esausta, finalmente addormentata, un incongruo Paolo Nutini che schitarra alla radio e pensare al Paolone che scriverò arrivato a casa, conservando quello che era già pronto per la prossima volta.

Mi piacciono parecchie cose di (e con, e su, e per) mia moglie, ma francamente me le terrei per me.

 

Alla fine della scena, Woody Allen si alza e corre a fermare Tracy (una splendida Mariel Hemingway) in partenza per Londra. Ora, fuori piove e non saprei bene dove correre, ma l’esercizio del Woodyallen sul divano funziona , davvero, e dopo torni ad affrontare il mondo un poco rinfrancato.

 

Da leggersi, potendo, con, come colonna sonora, la Rhapsody in Blue di George Gershwin, magari nella splendida versione della Gewandhausorchester Leipzig diretta da Riccardo Chailly e con Stefano Bollani al pianoforte.

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