Qualche sera fa sono stato ospite della prestigiosissima Pecha Kucha Night Milan vol. 16. La serata si è tenuta allo Spirit de Milan, location meravigliosa, e portava il suggestivo titolo “Urban Rituals”.
In queste serate bisogna presentare una sequenza di 20 immagini rimanendo su ciascuna immagine 20 secondi (il tutto è impietosamente automatizzato), per una durata totale della presentazione di 6′ 40″, impresa come potete immaginare ai limiti dell’umano per un logorroico dalle mille subordinate come me. Io ho deciso di presentare “URBAGRAMMI – dispacci dalla città”, un progetto fotografico semiserio nato dall’utilizzo un po’ compulsivo che faccio della fotocamera del mio telefono e dei social network.
Essendo sopravvissuto, ho pensato di raccontare anche a voi la storia degli URBAGRAMMI.
La maggior parte delle persone presenta, a queste bellissime serate, lavori seri e affascinanti, spesso splendenti punte di iceberg professionali ed esistenziali densi di ispirazione e di talento. Io ho pensato di prenderla un po’ leggera e, sperando di non deludere le aspettative dei presenti e dei pregiatissimi organizzatori, ho deciso di dedicare la presentazione a un mio hobby.
Nella vita è importante avere un hobby, anche se avere un hobby potrebbe sembrare un’aspirazione in contrasto con le nostre esistenze professionali da eterni precari (più o meno di lusso). In questa epoca ingrata, è quindi necessario avere un hobby compatibile con la nostra vita: sufficientemente poroso da occuparne gli spazi liberi e abbastanza vicino agli interessi professionali da alimentarsene e alimentarli. Il mio hobby è la georeferenziazione.
Tutto nasce al mio ultimo anno di università. Da studente di architettura in eterno equilibrio tra lo zelo e la pigrizia, assalito dall’horror vacui della fine dell’Università, decisi con alcuni amici di frequentare un corso di teorie dell’urbanistica. Il corso era tenuto da un docente straordinario — Silvano Tintori — e si svolgeva in Bovisa, in una delle sperdute aule CS del Politecnico di Milano, alle 8.15 di mattina. Vuoi la densità degli argomenti, vuoi l’ambientazione post-atomica, vuoi la bizzarria della combriccola di frequentanti, vuoi la levataccia, ma fu un esperienza quasi mistica. Alcuni passaggi di quel corso sono diventati pilastri teorici e metodologici del mio agire successivo, altri li ho capiti veramente solo molti anni dopo.
Come tesina per la fine del corso preparai una riflessione sul ruolo dei nascenti sistemi informativi territoriali nella condivisione dei processi decisionali urbani. Era il 1998 e da qui nasce tutto.
Rimasta sotterranea per qualche tempo, la questione della georeferenziazione riemerse tra i miei interessi in un lavoro che facemmo con alcuni amici conosciuti a un workshop al centro sociale Casa Loca. L’idea era costruire una piattaforma web che facilitasse, attraverso la condivisione di informazioni georeferenziate, la riappropriazione degli spazi urbani da parte dei cittadini. Era il 2006 e la piattaforma, mai nata, si chiamava Mapolis, per gli amici: Mapo.
In questi anni il mapping si è consolidato come uno degli strumenti fondamentali di conoscenza e di azione (sia istituzionale che antagonista) sul territorio. Ci sono moltissimi esempi e non mi dilungherò qui nel raccontarveli.
Noi, per immaginare Mapo, parassitammo flickr, il famoso sito di condivisione di foto (piattaforma ineguagliata per raffinatezza concettuale e tecnica, al di là di un successo forse non all’altezza delle straordinarie possibilità). Fu così che capii l’importanza del nesso tra georeferenziazione e immagini.
Nel 2007, nella celebre presentazione del primo iPhone, Steve Jobs giocò sull’equivoco delle tre nature del dispositivo: mp3 player, telefono e navigatore web. La realtà ha affiancato a questa terna, un’altra forse più importante: macchina fotografica, localizzatole GPS e dispositivo al servizio dei social network. Grazie a questo circolano oggi in rete miliardi di dati georeferenziati, la maggior parte dei quali sono fotografie.
A partire dal l’elaborazione dei dati georeferenziati, molti studiosi hanno iniziato a preparare mappe affascinanti. Sicuramente conoscerete il Senseable City Lab dell’MIT di Carlo Ratti e i lavori bellissimi che fanno, quindi non mi soffermerò oltre di questo. Ognuno di noi (o, almeno, io) ha sognato di accedere a questi dati e costruire le mappe sui temi più bizzarri.
Noi si era però parlato di hobby, di artigianato, di roba più-o-meno. Quindi torniamo alle nostre questioni. Se l’avvento della fotografia digitale ci ha reso tutti fotografi, la simbiosi tra la macchina fotografica e il gps nei nostri smartphone (è quella tra noi, i nostri smartphone e i Social network) ci ha reso tutti, più o mano consapevoli mapper. E questo avviene soprattutto in virtù della sempre più pervasiva moda della street photography, che poi è un modo polittically correct di definire il farsi i cazzi degli altri, ma un farsi i cazzi degli altri elevato all’ennesima potenza dalla condivisione sui Social degli esiti dell’attività stessa. È così nasce lo Urban Voyeur.E, in un gioco di specchi, si arriva fino al voyeur del voyeur, al meta-voyeur che fotografa il fotografo che fotografa la vita, come sulla pagina Facebook che raccoglie le fotografie del famigerato Rasta che fa le foto.
E qui urge, e mi perdonerete, una parentesi fondamentale sul tema della privacy. È un tema che mi è molto caro, insieme a quello del confort e di alcune altri optional che certe volte ho la sensazione che compriamo senza conoscerne il prezzo, ma è una storia lunga che potremmo discutere in altra sede. Viviamo, lo sapete, in un’epoca schizzofrenica. Passiamo il tempo a compilare moduli che proteggono una privacy che quotidianamente sputtaniamo facendoci selfie e mettendoci in mostra. Per illustrare questo concetto ho usato una slide che compone molte immagini scattate allo Standard Hotel di NYC, slide che non era forse la più appropriata per rimanere fissa per 20 secondi, che improvvisamente sono diventati lunghissimi. In sostanza questo hotel, dotato di una grande facciata vetrata a strapiombo sulla celebre e frequentatissima High Line, è gioiosamente frequentato da coppie e singoli che, giovandosi dell’anonimato della metropoli contemporanea, si esibiscono in virtuose performance au naturel a beneficio dei numerosi passanti. Quale migliore esempio della nostra deliziosa schizofrenia?
E comunque, chi sono io per sottrarmi dalla moda imperante della fotografia di strada? Soprattutto in ragione del mio interesse, che vi ho appena spiegato, per le fotografie e per la georeferenziazzione e, non di meno, per la mia nota propensione a farmi i cazzi degli altri? E così mi sono messo a raccogliere le foto che faccio con il telefonino quando sono in giro. O meglio: prima le scatto, poi le condivido su Instagram e su Facebook. Insomma: dopo averle postate sui social network, secondo un principio un po’ surreale di giuria popolare alla Sanremo, osservo quali foto vengono più apprezzate: solo queste diventano URBAGRAMMI.
Inizio ad averne accumulati una certa quantità e le foto hanno raccolto anche sorprendenti apprezzamenti, quindi ho deciso, con tutta l’auto-ironia del caso, di prendere questo hobby sempre più sul serio, fino a decidere di stampare le foto e iniziare a diffonderle, tornando alla carta e chiudendo, in qualche modo, il cerchio. Recentemente ho anche fatto una prima mostra, in occasione del decimo anniversario del nostro studio di architettura.
Che poi, se volete, come la pallida imitazione che sono di un personaggio qualsiasi di un romanzo di Paul Auster (nella vana speranza di esercitare anche un decimo del fascino dell’Harvey Keitel di Smoke), di progetti ne avrei anche altri: QUESTO, per esempio, si chiama miTopie: Sono fotografie surreali costruite assemblando due scatti di google street view (e sempre li torniamo) uno fatto a Milano e uno altrove. L’intero progetto MiTopie è composto da due foto. In effetti non molte. Vabbé.
Insomma, alla fine l’altra sera ho avuto il privilegio di presentare URBAGRAMMI alla Pecha Kucha Night Milan ed è stato molto divertente. Se volete, li trovate on-line, su Facebook, su Instagram e su Pinterest. Oppure in studio da me o in giro per le case di alcuni (fortunati?) amici.