Originariamente pubblicato su Il Calibro.
Per esempio. Per ragioni che qualunque padre-di-famiglia libero-professionista con-suoceri-lontani (ce ne saranno altri, no?) può facilmente immaginare, le mie vacanze estive sono state poco riposanti e ancor meno propizie a un seren o rapporto di coppia. Ricorrendo però quest’anno i dieci anni del nostro matrimonio, i miei genitori hanno deciso di regalarci cinque giorni consecutivi di babysitting incondizionato, permettendoci di passare a fine ottobre un lungo weekend di vacanza. Abbiamo raggiunto la Sicilia con un volo low-cost che ci ha catapultati dall’inverno incipiente di Milano a una dolce tarda estate, abbiamo noleggiato un piccola macchina un po’ sportiva (addirittura cabriolet!), abbiamo dormito in stanze affrescate di palazzi nobiliari, abbiamo mangiato pesce in riva al mare, abbiamo nuotato nelle acque cristalline delle riserve. Grazie ai miracoli di un uso un po’ compulsivo di Internet, abbiamo fatto una vacanza meravigliosa a prezzi assai ragionevoli, giocando per qualche giorno a essere una versione più spensierata, sbarazzina (e abbiente) di noi stessi.
Oppure. L’altro giorno, passando il portafogli sul lettore RFID del tornello della metropolitana, al fastidioso beep di disapprovazione (e alla conseguente mancato sbloccaggio del tornello, con bastonata sul quadricipite inclusa) il piccolo schermo a sedici caratteri mi ha ammonito: “troppe tessere”. In effetti me ne ero accorto anche io: nel portafogli vanno accumulandosi un numero irragionevole di carte. Il fatto è che a ciascuna di esse corrisponde, nella nostra città in corso di smartificazione, un diverso servizio. Perché non c’è solo la tessera dei mezzi pubblici: oggi in città puoi girare in bicicletta, con la Smart o con la Cinquecento e puoi fare moltissime altre cose. Tutto questo attraverso servizi che permettono l’utilizzo temporaneo di alcuni beni.
E anche. Durante le vacanze di Natale, in un momento di furia razionalizzatrice della mia vita digitale e non, ho sottoscritto l’abbonamento ad iTunes Match. Ora posso condividere con il computer, il telefonino e l’appleTv di casa tutte le canzoni rippate negli anni dai miei dischi. E posso quindi liberarmi dei circa 350 CD (miei e di mia moglie) che campeggiano minacciosi e impolverati su una lunga mensola del nostro piccolo soggiorno. E grazie al lettore a inchiostro digitale ricevuto per il mio compleanno, posso (forse, in parte, anche, a tratti) fare a meno dei libri.
Quindi. Cosa hanno in comune tra loro queste diverse vicende? Non molto, all’apparenza, eppure tutte esprimono la mia recente epifania: l’ebbrezza del non possesso. Qui si potrebbe tirare in ballo, ma credo a sproposito, la questione della sharing economy (definizione di Yochai Benkler). Oppure, ancora più a sproposito, si potrebbe quardare alla gustosissima questione dei Commons, e di Garrett Hardin, Elinor Ostrom con tanto di Nobel, Richard Stallman e tutti gli altri. Ma non lo faremo, anche perché mi ripropongo di tornarci più approfonditamente al più presto.
In realtà, seppur il movente collaborativo (fortemente caratterizzato dal punto di vista politico e culturale) abbia permesso lo sviluppo di molti degli strumenti (metodologie, software, apps e così via) che rendono possibili le pratiche che vi ho appena descritto, qui si parla di qualcosa di più commerciale, ma non per questo meno rivoluzionario. Si parla di cose sempre esistite (il noleggio, l’ospitalità privata, il servizio in generale) portate a nuova vita dagli strumenti dell’Era dell’Informazione e rese nuovamente appealing da una nuova temperie culturale, figlia di Internet quanto della crisi.
Molte statistiche dimostrano che queste forme di servizio prosperano in un momento in cui la parola prosperare è scomparsa dal vocabolario di molti. Nelle materie di mia più stretta pertinenza, già da qualche tempo brandivo in certi contesti lo slogan “la casa: da bene a servizio” che avevo coniato (o orecchiato…) senza averne forse intuito a fondo il potenziale rivoluzionario.
Qui c’è da buttare a mare cinquant’anni di sogni piccolo-borghesi. C’è da spogliarsi d’ogni bene materiale, non per essere novelli Sanfranceschi (per quanto anche il fraticello goda negli ultimi tempi di rinnovata popolarità), ma per tuffarsi senz’ombra di senso di colpa nel consumismo 2.0, fatto di servizi e non più di beni. Non voglio entrare nel (pur estremamente interessante) merito valoriale della questione: non mi interessa ora giudicare. Ma sarei poco onesto se non ammettessi, da un lato, il radicamento nel mio animo piccolo-borghese del bisogno di possesso (riuscirò mai a fare a meno dei miei CD che, peraltro, non uso?) e, dall’altro, la piacevole sensazione che provo ogni volta che mi accomodo in questo modo (forse) nuovo di fare.