Un supermercato malato di malinconia

L’abbiamo già detto varie volte: qui si parteggia per la città. Siamo faziosi, tendenziosi, più infingardi di un sallusti a piede libero. Supponiamo che, se continuate a leggerci, abbiate deciso di soprassedere a tanta manifesta assenza di obiettività. E quindi rincariamo la dose e torniamo a parlare di città. D’altronde, ormai si sa: già oggi, la metà urbana dell’umanità produce oltre l’80% della ricchezza globale; le prime 600 città, dove vive il 20% dell’umanità, generano oltre il 50% del Pil mondiale (se avete della santa pazienza, potete spulciarvi il report del McKinsey Global Institute sulla condizione urbana). Si fa quindi pressante la necessità di comprendere, di misurare, di prevedere gli sviluppi delle città.

Negli anni sono stati messi a punto molti indicatori che dovrebbero rappresentare (o prevedere) la capacità economica di un’area urbana. La prima misura è, ovviamente, il Prodotto Interno Lordo urbano, figlioletto di città del famigerato PIL, unità di misura del mondo. A un certo punto, questa tecnica di misurazione è parsa un po’ sorpassata, sopraffatta dalla sua indole sordamente positivista, e sono arrivati altri e sempre più bizzarri indicatori: l’High-Tech Index (che misura l’incidenza del fatturato high-tech della città sul totale nazionale) o il Talent Index (che misura la percentuale di persone con laurea o specializzazione in città) e poi il “Bohemian index”, il “Gay index”, il “Diversity Index” e tanti altri.

Ora, se io facessi il ricercatore di mestiere, e non fosse solo un costoso e dissennato hobby (se altra fosse l’epoca, e altro il lignaggio, potrei forse fregiarmi della definizione di gentleman scientist, ma di questo ne parleremo in altro Paolone…), dedicherei parte delle mie energie ad approfondire alcune idee su questo tema. Nel frattempo, le sottopongo al sofisticato campione dei lettori del Paolone (che magari mi sveleranno come già altri, e molti, si siano occupati di questo).

L’assunto potrebbe essere che la rappresentazione di una città nelle arti può essere considerata un driver delle sue prestazioni economiche. Perché ci sono opere in cui la città non è uno sfondo, una localizzazione, una scenografia, ma è ragione d’essere, personaggio, protagonista. E queste opere contribuiscono, io credo, in modo fondamentale alla costruzione dell’identità di una metropoli. Pensate alla Venezia di Canaletto, Firenze in tutta l’arte del Rinascimento, la Vienna Fin-de-siècle raccontata da Klimt, Schnitzler, Schiele, Kraus o Schoenberg. Chiaro, no?

Comincerei dalla letteratura, che forse è la cosa più ovvia, se non fossi come sempre rapito dalla vastità della mia ignoranza. Facciamo così, cominciamo dalla letteratura più recente e un po’ pop che piace a me: come non pensare subito alle generazioni di scrittori catalani che, nell’arco di trenta, forse quaranta, anni, hanno costruito il mito di una città? Da Manuel Vázquez Montalbán a Carlos Ruiz Zafón, passando per Eduardo Mendoza (non ditemi, vi prego, che non avete letto Nessuna notizia di Gurb) o Mercè Rodoreda, Juan Marsé (sono, chissà perché, sicuro che conosciate l’adattamento cinematograico de L’Amante bilingue), Roberto Bolaño, Enrique Vila-Matas, Javier Cercas (che ameremmo anche solo per la sua spericolata difesa di “una verdad irónica y emancipada de la tiranía de lo literal” sul El Pais di qualche tempo fa) e tanti altri (e ci risparmieremo la Cattedrale del mare di quel tal Ildefonso Falcones). Potremmo farci aiutare da Sebastian Groes a scoprire la costruzione di una identità londinese in autori come J. G. Ballard, Angela Carter, Iain Sinclair, Salman Rushdie, Martin Amis, Ian McEwan, Zadie Smith ma anche Maureen Duffy, Michael Moorcock, Monica Ali, Hanif Kureishi, Will Self, Peter Ackroyd. E similmente fu, forse più in altre epoche, per Parigi, e Vienna, e Berlino; o, a volte, per città dove brillano singoli autori, o piccole scuole, che bastano però a definire un carattere. Oppure potremmo pensare alla New York City di Questo bacio vada al mondo intero di Colum McCann (e, in particolare, nelle sue prime, indimenticabili, cinquanta pagine), o in Molto forte, incredibilmente vicino di Jonathan Safran Foer, o in quasi tutto Paul Auster, oppure indietro al Il falò delle vanità di Tom Wolfe. E poi, in rigoroso ordine sparso, Bret Easton Ellis, Philip Roth, Jonathan Lethem, Nicole Krauss, Jonathan Franzen, Don DeLillo (in questo caso ci risparmieremmo, potendo, Candace Bushnell).

Certo che, se si parla di New York, viene subito in mente il cinema. E ci si trova come d’incanto seduti su quella panchina del parco di Sutton Place a veder sorgere il sole dietro al Queensboro Bridge. Ed è impietoso, almeno credo, per ogni altra città del mondo, tentare una lista di film significativi girati a N.Y.C. Oltre a quasi tutto Woody Allen (forse il migliore), potremmo spaziare da Taxi Driver a Harry ti presento Sally, da Ghostbusters a Quei bravi ragazzi, dalla Febbre del Sabato Sera a Colazione da Tiffany, da Saranno Famosi a 1997 – Fuga da New York, da Quando la moglie è in vacanza a Cercasi Susan disperatamente: ce n’è, voi capite, da uscirne pazzi (è vero, mi sono divertito parecchio a compilare questa lista). E di nuovo potremmo parlare di Londra (da Blowup a Il discorso del re, passando per Arancia meccanica e Sliding doors, About a boy e Mary Poppins) o Parigi (che difende il brand perfino nel nome: Un americano a Parigi, Ultimo tango a Parigi), protagonista indiscussa, tra l’altro, anche dell’animazione. E Roma, certo, ha avuto i suoi momenti di gloria.

Più impervio, ma forse ancora più affascinante, cercare le città nelle canzoni. Lasciamo perdere le solite New York, Parigi e Londra, che è meglio. Potrei raccontarvi Madrid attraverso poche selezionate (e strampalate) canzoni: Pongamos que hablo de Madrid di Joaquin Sabina, Cannabis degli SKA-P (“Ni en Chueca, en La Latina, no hay en Tirso de Molina ni en Vallekas ni siquiera en Chamberí”) e Aquí no hay playa dei Los Refrescos (ripresa dagli Statuto parlando di Torino).

Mi rendo perfettamente conto che la mia teoria, almeno dal punto di vista scientifico e economico, fa più acqua del Titanic , ma così è la scienza poco seria dei ricercatori amatoriali. Eppure mi sembra possa bastare per far venire il prurito di provare a valutare Milano.

I film, per esempio: occhei, c’è il Neorealismo, De Sica, un po’ di cinema impegnato degli anni Settanta, Marco Bellocchio, ma poi? Ci tocca salvare Pozzetto per non tenerci Jerry Calà, vi rendete conto? Vuoto spinto, giusto qualche cammeo qua e là, giusto qualche attore capriccioso che voleva farsi una settimana di vacanza in Italia. Perfino Torino (grazie anche alla zelante Film Commission) è messa meglio. La letteratura? Anche qui andiamo malino, dopo Gadda, Testori e (mettiamoci pure) Giorgio Scerbanenco, nulla di davvero rilevante. A voi il piacere di scegliere tra Andrea G. Pinketts e Gianni Biondillo, tra Andrea De Carlo e Giorgio Faletti; se devo, mi terrò Aldo Nove. Non che non ci siano i buoni scrittori (almeno spero), ma si guardano bene dall’ambientare nella piccola mela italiana i loro romanzi e le loro novelle. Bologna, patria del fuorisedismo, Roma, ancora Torino, perfino Bari sono messe meglio. E le canzoni, lasciamo perdere, anche qui gli ultimi sussulti nei primi anni settanta. Mi viene in mente solo un Luci a San Siro più consumata dei sedili della Seicento di cui narra e un Riondino d’annata, che ha dato il titolo a questo post e che aveva molti anni fa guidato la mia (amatoriale) analisi della città svolta per il corso di Giancarlo Consonni.

Amo questa città, e di solito difendo l’indifendibile. Ma il protagonist index che mi sono appena inventato posiziona Milano al 147 posto, subito dopo Toledo ma, per fortuna, prima di Lugano.

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