Da giovane, ero un fondamentalista della multiculturalità (per quanto possa essere fondamentalista una persona pigra come me). Voi potete capirmi: da lombardo al 100% bisognava pur trovare delle distrazioni. Perché io, di mio, ho al massimo un centinaio di chilometri in linea d’aria (ho appena controllato su Google maps…) tra il paesino del mio avo più settentrionale e quello del più meridionale. Tra l’altro sostanzialmente a longitudine zero. Ho sempre provato, di conseguenza, un fascino irresistibile per ogni forma di meticciato, di mescolamento e di nomadismo.
E quindi sceglievo la musica, le letture, financo le compagnie, nella disperata ricerca di un po’ di metissage. Ricordo perfino di aver scritto un roboante (e in gran parte incomprensibile) Manifesto dell’architettura meticcia, che il mio Mac e il web hanno deciso, con clemenza, di rendere irreperibile.
Nel fare tutto ciò, ero parte di qualcosa di molto più grande. La mia generazione, o almeno una sua parte, ha creduto fermamente che il mescolamento di razze e culture che si stava imponendo nella nostra società non solo non fosse un problema, ma, anzi, fosse la soluzione. Ascoltavamo Manu Chao e fingevamo di saper parlare un sacco di lingue (per lo più lo spagnolo, che faceva Paese in Via di Sviluppo con il minimo sforzo). Vestivamo in modi che può essere imbarazzante ricordare e viaggiavamo a più non posso ben prima delle low-cost. Sempre con la chitarra in spalla, che avendo imparato quattro accordi ci avevamo costruito un repertorio.
Nel luglio 2001, a Genova, quella stagione ebbe uno dei momenti più alti e più tragici, difficile da ricordare in un blog poco serio come questo. Io nemmeno c’ero: la mia scarsissima lucidità politica mi fece (purtroppo e per fortuna) sottovalutare l’importanza del momento e in quei giorni me ne andai a Perugia a Umbria Jazz.
Sono passati molti anni da allora, più di una decina. Siamo diventati tutti un po’ più vecchi, alcuni anche più maturi. Qualcuno ha messo su famiglia, qualcuno ha messo su pancia, molti tutt’e due e alcuni nessuna delle due. Ci siamo trovati un lavoro: per lo più instabile – anche se non sempre, per lo più poco redditizio – anche se non sempre. Qualcuno assomiglia ancora molto al se stesso di allora, ma noi che avevamo l’anima moderata ci siamo imborghesiti senza pietà. Sulla nostra generazione, proprio al momento di intraprendere la vita adulta, si è abbattuta forse la più micidiale crisi della tarda-modernità, e l’ottimismo (per quanto critico) di allora non è tornato più.
Ma lasciate che ve lo confessi: anche se forse con molta meno ingenuità, continuo a pensare che quel sogno fosse splendente.
Domenica scorsa c’è stata la festa della scuola di mia figlia: un grande macchinario volontaristico costruito fondamentalmente al fine di raccogliere fondi per le nostre scalchignate scuole (vicenda che vi ho già raccontato l’anno scorso, in uno dei post di maggior successo di questo blog). Dopo la marcia per le vie del quartiere siamo approdati nel cortile della Martin Luther King, dove ci aspettavano banchetti e leccornie. Quest’anno non c’era ad accompagnarci la Nema Problema Orkestar, anche se nego che la musica balcanica ci abbia rotto i coglioni, sostituita dai Mitoka Samba. I volenterosi suonatori pseudo-brasiliani, giunti nel cortile della scuola, ci hanno deliziato con una potente Batucada.
Sotto un insperato sole, un pensionato con la panza, supponiamo milanese, percuoteva con veemenza un tamborim accanto all’immancabile percussionista nero, a questo punto supporremo ghanese. Dirigeva la variopinta banda un giovane entusiasta mentre dai microfoni improbabili animatori invitavano tutti a ballare.
A un certo punto, si è fatta largo tra il pubblico una bimba abbastanza piccola, forse di sette o otto anni. Era molto bella e aveva tratti, diremmo, magrebini. Giunta davanti all’orchestrina, la bimba, con studiata reticenza, si è messa a ballare. I movimenti, precisi e eleganti, erano quelli inconfondibili delle danze arabeggianti. Non avrebbero dovuto centrare nulla, ma calzavano a pennello sulle percussioni d’oltre oceano. La felpa rosa di Hello Kitty, legata in vita per il caldo, ondeggiava come un velo di Salomé e tutti facevo spazio a questa sorprendente esibizione. Tutti tranne i bambini che, attratti dalla forza della danza, si sono riversati in quello spazio appena liberato e si sono messi a ballare. Ballavano copiando, come potevano, i movimenti della piccola odalisca e nel giro di pochi minuti un intero gruppo multicolore si dimenava orientaleggiando al ritmo di un Samba a la milanesa.
Ora: vedere una bimba cinese ballare una danza arabeggiante nel cortile di una scuola milanese, al ritmo di un samba lombardo-ghanese è quanto di più simile a quel che sognavamo allora. La parte più difficile, è scoprirsi dalla parte dei genitori.
E bisogna anche ricordarsi che queste cose non succedono per caso, o da sole. Succedono perché qualcuno, in questo caso la commissione Intercultura dell’Istituto Cadorna, lavora con costanza e generosità. Avendo fatto tesoro (verrebbe da dire) delle parti migliori di quel sogno collettivo. Avendo guadagnato in realismo senza perdere in utopia.
p.s.: Per chi non l’avesse capito, nonostante le molte citazioni sparse come indizi qua e là in questo post, sono rimasto profondamente colpito da un pezzo del nuovo disco di Elio e le Storie Tese. Il disco si chiama L’album biango (ed è molto bello) e il pezzo porta il titolo Complesso del primo maggio. Ho avuto il privilegio di sentirlo dal vivo nell’anteprima dell’ultimo tour, e da allora non riesco a smettere di canticchiarlo. Ascoltatelo (e guardate il bellissimo video dei H-57, delirio citazionista sovietico-montyphytoniano perfettamente coerente con la canzone) e non ve ne pentirete.