Originariamente pubblicato su Il Calibro.
Si avvicina la fine di questo travagliato Duemilaetredici. Ma non preoccupatevi: non mi sto accingendo a uno di quei melensi bilanci esistenziali che il Paolone vi propina con frequenza. E nemmeno voglio tediarvi con i molti buoni propositi che mi appresto a disattendere. Riflettevo però sul fatto che l’anno che verrà porterà con sé i miei quarant’anni. È un’età impegnativa, di questi tempi: pare che i quarant’anni siano il nuovo nero. I quarantenni sono al governo, conquistano i posti di potere, dirigono i giornali, dettano le nuove regole. Perfino nel nostro gerontocratico paese. Non che mi dispiaccia un po’ di protagonismo, per la mia bistrattata generazione, ma vorrei produrmi in alcune importanti precisazioni.
Prima e fondamentale precisazione: noi quarantenni non siamo giovani.
Trentatre anni bastarono ad Alessandro Magno per costruire uno degli imperi più vasti di tutti i tempi e a un tale di Gerusalemme per fondare una delle religioni più diffuse e longeve di sempre. Ben prima dei quarant’anni perse la testa Maximilien François Marie Isidore de Robespierre e a quarantadue anni Albert Einstein ricevette il Premio Nobel per le scoperte fatte negli anni precedenti. A quarant’anni, Maria Elide Punturieri detta Marina, coniugata Ripa di Meana e precedentemente nota come Marina Lante della Rovere era già pronta per un primo abbondante bilancio della sua vita, magistralmente trasposto su grande schermo da Carlo Vanzina. Insomma, un quarantenne è un cittadino fatto e finito che, con ogni probabilità, ha già alle spalle il suo maggiore vigore. Non che questo sia un problema, ma non chiamateci giovani.
Seconda e necessaria precisazione: noi quarantenni siamo dei disadattati disfunzionali.
Chiunque sappia qualcosa sull’epoca della nostra formazione si guarderebbe bene dal lasciare al potere la nostra generazione più dello stretto necessario (a chi voglia farsi un’idea più precisa su quali danni possano produrre gli anni Ottanta su una mente indifesa, consiglierei la lettura di Player One: l’incredibile avventura di un ragazzo che deve salvare il mondo di Ernest Cline). Paragonare Renzi a Arthur Herbert Fonzarelli (detto Fonzie) è una grave imprecisione storiografica: sarebbe forse più appropriato il rimando a Michael Knight (interpretato nel telefilm dal raffinato David Hasselhoff), con il PD improbabile mezzo supertecnologico. Difficile non cogliere nell’Enrico Letta che si prende cura del Paese lo sguardo deciso e rassicurante (e il maglione sulle spalle) dello Scott Baio di Baby Sitter (che la riforma elettorale sia l’inarrivabile Gwendolyn Pierce?), e in Pippo Civati il terzo fratello Duke (escluso dal telefilm perché l’unico di sinistra).
Terza e conseguente precisazione: i veri giovani sono un’altra cosa.
Ho personalmente e frequentemente constatato quanto straordinaria sia la generazione che si affaccia oggi al mondo adulto: naturalmente cosmopolita e nativamente digitale, multidisciplinare e anti-ideologica, competente e meritocratica, competitiva e solidale, straordinariamente seria e inspiegabilmente ottimista. Forse sono fortunato io e nelle mie esperienze ho colto solo gli esponenti migliori di una generazione, ma è così bello e impudente generalizzare i pregi piuttosto che i difetti. Se largo ai giovani dev’essere, che largo ai giovani sia, ma quelli veri, però! (un buon inizio sarebbe evitare che tutti i migliori se ne vadano…)
E, per concludere, un'(auto)raccomandazione.
Ritengo sia importante che il nuovo protagonismo cui tardivamente sembrerebbe giungere la nostra generazione non ci induca in grossolani errori.
Il primo errore sarebbe rottamare (che insulsa parola) l’esperienza, la sensibilità, la saggezza delle generazioni che ci hanno preceduto. I nostri padri, nati negli anni Trenta e Quaranta, hanno visto e vissuto cose che gli permettono una comprensione del mondo preziosa: nell’accompagnarli con cortese fermezza alla pensione dovremmo assicurarci il loro sostegno e il loro consiglio (personalmente, pur con alcune limitate e rilevanti eccezioni, trovo meno chiara l’utilità delle generazioni successive, ma potrebbe essere un mio limite…).
Il secondo errore sarebbe convertire la solidarietà generazionale (peraltro faticosamente raggiunta) necessaria a farci largo nell’ostile sistema gerontocratico italiano in uno strumento per escludere chi viene dopo di noi. Prima di tutto ripeteremmo l’errore di chi ci ha preceduto senza condividerne i meriti e la levatura, secondo perderemmo la preziosa risorsa delle nuove generazioni. Ogni piccola conquista di noi quarantenni dovrebbe tradursi nella scusa per tenere aperta la porta e far entrare i giovani veri.
L’ultimo e più grave errore sarebbe prendere questa storia dell’età con eccessiva serietà: conosco quarantenni obsoleti, trentenni sessantottini tardivi, cinquantenni esperti e saggi, giovanissimi settantenni. Probabilmente le eccezioni superano di gran lunga la regola.
Detto questo, se non avete niente in contrario, procederei con malcelata baldanza ed esibita serenità verso il Duemilatredici e verso i miei splendidi quarant’anni.