Primule e primavere

Supponiamo stiate passeggiando su un prato o in un bosco di mezza montagna, nella zona temperata boreale. Supponiamo che sia l’inizio della primavera, o anche il pieno di un inverno mite. Facilmente allora vi imbatterete in una Primula vulgaris, quegli eleganti e sorprendenti fiorellini gialli pallidi che per macchie o solitari compaiono tra l’erba o tra le foglie del sottobosco quando ancora la primavera è solo il prodotto di una vaga speranza. Ora, se appoggiate delicatamente il polpastrello del pollice al centro del fiore, fate scorrere indice e medio dietro ai petali, ai due lati del calice, e dopo aver esercitato una live pressione tirate delicatamente ma con decisione verso di voi, l’intera corolla, essendo gamopetala, si staccherà e vi rimarrà in mano. Per delicata che possa esservi sempre sembrata, ammesso che lo sembrasse, la vostra mano già non più pargoletta, apparirà in tutta la sua rozzezza accanto all’oggetto lieve di cui vi siete a questo punto impossessati. E se poi, sempre con delicatezza, avvicinerete la corolla alla bocca, vi accorgerete che può essere trattenuta dalle labbra, a patto di riservarle cautele di un’amante allo sbocciare del sentimento. Se ora soffiate piano, molto piano, e avete fortuna, molta fortuna, dal delicato fiore uscirà un suono – invero non gradevolissimo – come di trombetta. Un suono che, vuoi per la sorpresa, vuoi per l’incongrua ineleganza rispetto ai pallidi petali, farà molto ridere gli astanti, specie se minori. In caso di mal funzionamento del dispositivo, giacché non sempre gli stami vibrano correttamente nel tubo della corolla, si può procedere, con gesto teatrale dal sentore vagamente sacrilego, a mangiare il fiore stesso, che, oltre a essere edibile, svelerà un inatteso sapore dolciastro. O almeno, così mi aveva insegnato a fare mio padre.

Ho sempre pensato, e diverse volte sostenuto anche qui sul Paolone, come la nostra generazione abbia tutti i numeri per essere la prima a compiere il miracolo di invecchiare senza essere mai diventata grande. Certo, non possiamo negare come alcuni pionieristici late-boomer siano stati eccellenti anticipatori di questo fenomeno, ma solo con noi cosiddetti X la refrattarietà all’essere adulti è assurta a cifra di una intera generazione.

L’eventuale correttezza di questa previsione può essere corroborata da molti segnali. Dalle mamme vestite come le figlie (attenzione, non il contrario) che stazionano davanti alle scuole elementari, ai padri quando si trovano tra soli uomini (al calcetto, al bar, sulle piste da sci o ovunque altro scelgano di ripararsi), ai bizzarri acquisti su Amazon che abbiamo fatto durante la pandemia. Un situazione particolarmente complessa si genera poi quando noi, figli non programmati per diventare adulti, ci ritroviamo ad avere genitori anziani, non programmati per diventare vecchi. A questo punto, complice la sordità emotiva degli uni e fisica degli altri, i dialoghi possono trasformarsi in commedie (o tragedie, questo dipende dalla capacità di ciascuno di esercitare una sana autoironia) dell’assurdo.

Eppure a questo destino di perenne immaturità occorre, e forse si può, sottrarsi. Ognuno a modo suo, senza pensare che lo stereotipo di vita adulta di chi ci ha preceduto debba per forza essere applicabile anche a noi. Consci che le varianti di vita oggi, per chi ha la fortuna immeritata di essere nato dalla parte giusta del mondo e della nostra iniqua società, sono molto più ampie. Questo sia rispetto alle relazioni e alla famiglia, che rispetto alla residenzialità, che rispetto al lavoro. Siamo singoli, coppie e altre formazioni varie: sposati, conviventi, coinquilini, frequentatori a tempo alterno, in pausa di riflessione. Con figli, senza figli, con figli d’altri, con cani, gatti o canarini. Con prima casa esente IMU, con due case, tre case, senza case,in attesa di muto, con mutuo pluridecennale, in affitto, in residence, in albergo. Espatriati, rimpatriati, inamovibili, pendolari. In low-cost, in Frecciarossa, in Regionale Veloce, nell’abitacolo dell’automobile in proprietà, comprata usata, a rate, in leasing, in noleggio a lungo termine, in sharing, in bicicletta. Precari, dipendenti, professionisti, lavoratori autonomi, auto-imprenditori, partite-iva, partiti di testa. Essere adulti in ciascuna di queste specifiche situazioni è cosa diversa, e cosa diversa ancora lo sarà per chi verrà dopo di noi: Millenial, Y o come vorremo chiamare, tentando goffamente di incasellarle, le generazioni che seguiranno e di cui, come è giusto, non capiremo nulla. È cosa diversa e solo nella sua differenza diventa possibile, credo.

Ieri sono andato alla Capanna Alpinisti Monzesi con il Michele. Circa due ore e mezza di facile (se uno fosse allenato…) passeggiata in mezza costa dalla Valle Imagna alla Val D’Erve, girando intorno al Resegone. La passeggiata che ogni estate facevo diverse volte con i “grandi” (che sarebbero poi i dodicenni, come mio figlio ora) della Colonia di mia madre. Differentemente di quanto avrebbe fatto mio padre, non sono stato in grado di dire a mio figlio i nomi dei vari alberi, né quello dei picchi innevati che si scorgevano in lontananza: per entrambe le cosse abbiamo però trovato un’efficacissima applicazione sui nostri telefonini. Mi sono ricordato un po’ delle storie chi si raccontavano, sorprendendomi ogni volta del fatto che coincidessero, anche se sommariamente, con i dati di realtà (le miniere di piombo, alcuni vecchi borghi, le varianti del sentiero). La maggior parte dei ricordi sono invece rimasti nella mia testa per manifesta inopportunità, per esempio le canzoncine sconce che cantavamo camminando, gli scherzi che facevamo e le volte che rimanevamo indietro per limonare. A un certo punto però nel bosco abbiamo incontrato le primule, e quasi senza pensarci ne ho raccolta una, secondo il metodo sopra esposto, e l’ho fatta suonare. E poi l’ho mangiata. Il Michi mi ha subito imitato.

Quanto alla primula, se qualcuno avesse a lamentarsi dell’uso incongruo di questo prodotto della natura o della sgradevolezza del suono, ricordategli che– vista la vostra nota natura di immaturi diavolacci – già gli è andata bene che del fior (e non di altro) abbiate fatto trombetta.

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