Ho pensato di condividere con voi alcune considerazioni in merito alla vicenda di EXPO, noExpo, tafferugli, polizia e pulizie. Non so perché io senta la necessità di avventurarmi in un terreno così scivoloso. Potrei cianciare, come al solito, di inutili suppellettili anni Ottanta. O stare zitto, come faccio troppo di rado nella vita reale e come al contrario ultimamente fa il Paolone. Invece oggi sono in vena di cercare guai. E poi, lo sapete, quando il tema è la città (specialmente la mia città), non riesco a resistere.
Ci sono molte e legittime ragioni per non essere favorevoli a EXPO. A partire da un modello forse obsoleto che il BIE porta avanti con imbarazzante protervia, per passare poi ai ragionevoli dubbi sull’opportunità di investire tanto denaro pubblico in un momento così difficile. Ci sono poi molte perplessità legate alla specifica vicenda dell’EXPO milanese. Per esempio sulla ragione di insediarsi in un’area privata che si è dovuto acquistare e non su una delle molte aree variamente pubbliche (e in generale meglio infrastrutturale) che pur c’erano. E poi sui soggetti scelti per attuare l’operazione, sulla scarsa trasparenza (noi architetti abbiamo molto patito la quasi totale assenza di concorsi pubblici, per esempio), sui ritardi, sulla corruzione, sulle infiltrazioni della malavita. Personalmente condivido molte di queste perplessità, ma penso anche che a EXPO ormai organizzata e inaugurata, abbia senso approfittare della grande occasione economica e culturale che l’Esposizione dà a Milano. Mi rendo conto di essere, come spesso sono, forse fin troppo pragmatico, ma questa è la mia natura. Altri, coerentemente, rivendicano il diritto di opporsi fino in fondo a una iniziativa che non condividono, per i motivi che dicevo o per altri che non conosco.
In ogni caso, non credo che queste fossero le ragioni di chi Venerdì manifestava per le vie di Milano. A mio modesto avviso, gli antagonisti, vittime come tutti della brandizzazione del mondo, hanno trovato — alla faccia di Naomi Klein — nel NoExpo un marchio efficace e ben comunicabile, un marchio sotto cui ospitare istanze più ampie e generali di critica al mondo di oggi. Critiche, anche queste, in gran parte comprensibili e forse condivisibili. Critiche alla finanziarizzazione di ogni aspetto della vita, critiche agli eccessi del liberismo, critiche a un modello di sviluppo che esclude molti, forse davvero troppi.
Non credo di poter affrontare qui temi ampiamente al di sopra delle mie competenze politiche e sociali, come la legittimità della violenza nelle rivendicazioni sociali, la difficoltà di convivere delle diverse anime dei movimenti di dissenso, le responsabilità della maggioranza dei manifestanti pacifici nei confronti delle minoranze più estreme, la capacità delle forze di Polizia di gestire questo tipo di emergenze e così via. Lascerei questi commenti a chi ne sa più di me.
D’altronde, quello che davvero mi interessa di tutta questa vicenda non è tanto l’azione, quanto la reazione. Sono rimasto davvero affascinato da come i cittadini di Milano hanno risposto agli eventi di venerdì. Prima verbalmente, per strada e sui social. Poi con i fatti (e con i corpi), per le vie della città.
Trovo fastidiose e intellettualmente scorrette molte interpretazioni date, anche da parti avverse, a quello che è successo sabato e, soprattutto, domenica. Io non credo, per esempio, che le prese di posizione contro i manifestanti e l’iniziativa spontanea di pulizia collettiva siano da considerare come proEXPO: ciascuno avrà avuto una sua posizione sull’Esposizione Universale, sulla sua opportunità e sui modi, come prima si diceva, ma questa è passata in secondo piano rispetto all’attacco subito.
Meno ancora credo che la decisa reazione comporti necessariamente una pregiudiziale avversione al dissenso, o un particolare zelo per il decoro e per l’ordine costituito (intesi, in questo caso, nella loro accezione peggiore). È fastidiosamente arrogante definire, come ho sentito fare in molte sedi sedicenti alternative, quella di Milano un risposta perbenista, buonista, reazionaria (qualcuno si è addirittura spinto, senza timore del ridicolo, a definirla violenta).
Allora cosa ha spinto tanti cittadini a prendere posizione fino al limite, non consueto, di scendere per le strade a ramazzare? Io credo che nella nostra cultura (in questo assai diversa da molte altre, anche occidentali) la città, i suoi manufatti e i suoi spazi, siano vissuti nel profondo dei suoi abitanti come beni comuni (proprio nell’accezione che intendeva Elinor Ostrom). Negli ultimi anni siamo sembrati come dimentichi di questo fondamento della nostra civiltà. Forse anestetizzati da un’immaginario disurbano veicolato insistentemente dai media, forse esacerbati dalla fatica di ottenere una buona gestione politica e amministrativa delle nostre città, forse vittime di un degrado generale del rapporto con la cosa pubblica.
Io credo, senza retorica, che questo fine settimana Milano abbia vissuto l’inatteso e insperato risveglio della sua anima civile (proprio nel senso di civitas), passaggio importante e forse non casuale di un processo avviato con fatica negli ultimi anni che sta iniziando a dare i suoi frutti.
A proposito: devo confessare che davvero non capisco la determinazione con cui molti, soprattutto a sinistra, hanno voluto sovraconnotare questa strana vicenda come una reazione superficiale e conservatrice, con paragoni meschini (del tipo “vi lamentate per quattro scritte ma ve ne fregate della fame nel mondo…”) e argomentazioni traballanti. Ma davvero amare la propria città, sentirsi personalmente responsabili dei suoi spazi, è cosa di destra?