Lo so, è il commento che faccio ad ogni elezione, almeno da Trump in poi… ma ormai è una mia ossessione: anche questa tornata elettorale conferma come il divario politico e culturale tra le grandi città e i territori sia sempre più netto (ormai incolmabile?).
Mentre nei territori prevalgono istanze sovraniste o almeno conservatrici, nelle città (che, per inciso, accolgono la gran parte dei migranti, spauracchio dei sovranisti) resistono istanze progressiste e inclusive. È un fenomeno globale, difficilmente attribuibile a meriti o demeriti delle singole forze politiche (senza nulla togliere a errori e omissioni delle stesse…), e che non credo si possa spiegare con sommarie semplificazioni. Non è (solo) una questione di censo: in provincia ci sono aree ricche e nelle città aree povere. Non dipende più (solo) dalle tradizioni politiche novecentesche: la logica delle roccaforti è sempre meno confermata. Certo contribuiscono i casi di buona amministrazione, ma nemmeno questo basta a spiegare un trend così evidente e generalizzato.
Io credo che un elemento fondamentale sia la maggiore attitudine a interagire con la complessità di chi vive nelle aree più dense: volente o nolente la città finisce con il fornire ai suoi abitanti categorie interpretative più sofisticate.
Se questo fosse (anche solo parzialmente) vero, chi condivide ideali e aspirazioni progressiste dovrebbe riflettere sullo straordinario patrimonio di urbanità della provincia italiana e delle aree interne, patrimonio oggi largamente negletto. Sono convinto che, se c’è una specificità italiana in Europa, è il carattere urbano anche dei centri più piccoli (perfino nei paesini di montagna siamo abituati a stare “addossati”), che potrebbe e dovrebbe essere il fondamento di una cultura complessa e inclusiva, il contrario della tensione a semplificare tipica dei populismi e dei sovranismi. O sapremo lavorare (anche) su questo fronte con ottimistica radicalità, o i numeri totali premieranno sempre sovranismi vecchi e nuovi.