Più Pete per tutti

Negli angoli della aule, sui tavoli da disegno, sotto ai tavoli da disegno, sulle panchine, su gradini della roulotte che ci ospitava nell’estate del 1998 in quella inospitale e abbandonata penisola artificiale di Malmö, ancora lontana dal diventare il il quartiere-modello che è oggi, io e la Chrissi, che ci eravamo appena conosciuti, scorrevamo le liste delle nostre passioni, per trovare ragioni oggettive a quel colpo di fulmine, per capire se ci fossero le basi per qualcosa che potesse durare oltre quell’agosto piovoso (spoiler: evidentemente, c’erano). Non ricordo tutto quello che ci dicemmo, ma sicuramente scoprimmo che a entrambi piaceva pattinare in città con i Rollerblade, che entrambi possedevamo una copia dell’album The Long Black Veil dei The Chieftains e che eravamo grandi appassionati di Bruce Springsteen.

Otto anni dopo, nel maggio del 2006, è arrivata la Lu. E, circa un mese prima, la Columbia aveva dato alle stampe We Shall Overcome: The Seeger Sessions, uno degli album più strani e imprevedibili del Boss. Lo ascoltammo molto, quel disco, in quegli anni. La Lu lo adorava, e – con il passo ancora barcollante – ballava Old Dan Tucker come un’indemoniata.

Prima di quell’album, conoscevo poco la vicenda di Pete Seeger. Certo, tra i (non numerosissimi) vinili di famiglia su cui mi sono formato, c’era una album di Joan Baez. E dagli zii americani giungeva eco di una formazione vagamente hippie con Woody Guthrie, annessi e connessi – fu proprio mia zia Ségolène a regalarmi Highway 61 Revisited, aiutandomi a colmare una delle tante lacune della mia competenza musicale. Ci sarebbe perfino da tener conto di Rita Pavone, a voler essere precisi. Quindi, in qualche modo indiretto, il monumentale lavoro di Seeger sulla tradizione musicale americana era giunto fino a me attraverso l’enorme influenza che aveva avuto sulla cultura popolare, musicale e non solo. Da allora ho recuperato un po’ del tempo perduto, ho approfondito l’opera di Seeger, ho scoperto il lavoro dei Lomax, ho letto un po’ di libri (tra cui un’avvincente biografia di Leadbelly). Oggi la presenza di Seeger nel mio variegato e scombinato panorama musicale è più solida e cosciente.

Ieri sera io e la Chrissi siamo andati a vedere il bellissimo A Complete Unknown, il bio-pic musicale di James Mangold dedicato alla prima parte della carriera di Bob Dylan, dagli esordi allo scandalo della sua partecipazione elettrica al Newport Folk Festival. Il film ci è piaciuto molto e io, devo confessare – ma con la senilità mi succede sempre più spesso – mi sono commosso in più di un passaggio. Timothée Chalamet è molto convincente nei panni di un tormentato e stonzissimo Bob Dylan e tutti i personaggi, anche i più laterali, sono ricostruiti con grande cura (ho apprezzato molto, anche se si tratta di poco più di un cammeo, il Johnny Cash di Boyd Holbrook). Ma l’interpretazione secondo me monumentale è quella di Edward Norton – non che la cosa ci stupisca – nei panni proprio di Pete Seeger. Nel film, che è tratto dal libro Dylan Goes Electric! di Elijah Wald e che mi sembra ben documentato, emerge un ruolo fondamentale, che non conoscevo, di Seeger come mentore di Dylan, ruolo cui Norton dona un volto perfetto.

Ecco, io penso che in questa epoca di solipsismo patologico, questa sia la cosa che ci manca di più: veri, onesti, generosi mentori. Mentori capaci di usare la propria competenza, il proprio prestigio faticosamente guadagnato, la propria forza per proteggere e crescere i giovani, portandoli con il sorriso di Norton-Seeger fino alla loro completa maturità, con la serena coscienza che con la maturità verranno i contrasti e che un giorno gli allievi saliranno sul palco della vita con una Stratocaster con il volume a manetta e butteranno giù tutto. Ne conosco pochi, ma proprio pochi, di mentori così nella generazione che mi ha preceduto (quei pochi non li cito, perché – proprio per come sono fatti – non apprezzerebbero, ma sono certo che loro sappiano che sto parlando di loro). Spero che la mia generazione sappia fare meglio, ma ho i miei seri dubbi.

Insomma, senza nulla togliere a tutti i Bob Dylan del mondo, noi è di più Pete Seeger che abbiamo bisogno.

Comunque, datemi pure del pazzo, ma io sono certo che esista un collegamento, fosse anche solo nel mondo degli archetipi Junghiani, tra il Pay Me My Money Down cantato dai portuali delle isole della Georgia e il Sciur padrun da li beli braghi bianchi delle mondine che mi cantava la mia nonna Luisa.

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