Originariamente pubblicato su Il Calibro.
Novecentosessantanove caratteri al minuto: tanti ne sa digitare tal Carlo da Vicenza, campione mondiale di scrittura su tastiera 2014; ma saprà cosa scrivere?
Stamattina, sulla porta, mia figlia guarda il fratellino pronto ad uscire ed esclama: “Sei un gallo!”. Lei intendeva l’espressione in senso letterale, giacché il Michele, fresco di parrucchiere e sottratta la spuma Ricci Perfetti della madre, si era modellato i capelli sulla testa a mo’ di cresta. Voi capirete però – o, almeno, capiranno i lettori miei coscritti – come questa frase mi abbia gettato in un lisergico flashback fatto di Bestcompany e Najoleari, cinturoni e piumini, galli e squittinzie.
Dell’inutilità costitutiva della mia generazione si è già detto, e non vorrei insistere. Ripensavo oggi invece alla lingua assurda che parlavamo: un’apoteosi di soprannomi, diminutivi, iperboli e stranezze varie, il tutto farcito di una dose smisurata di anglicismi. Sembrava saremmo stati la prima generazione di una nuova epoca di pura oralità: il telefono, la radio, la famigerata televisione erano destinati a cancellare dalla civiltà occidentale la parola scritta. L’arrivo e poi l’universale diffusione del telefonino e, con lui, del chiacchiericcio vacuo che esso ispira in molti di noi, parvero confermare le previsioni dei molti Solone dal facile vaticinio.
Poco dopo il cellulare, arrivarono gli SMS: piccoli messaggi di testo con il fondamentale merito di non gravare (o quasi) sulla bolletta. Giovani e meno-giovani diventarono così campioni nel condensare in centosessanta caratteri comunicazioni, avvisi, necessità e umori. L’abilità di far danzare le dita sulle microscopiche tastiere e marchingegni infernali quali il T9 (che alle volte prendeva il sopravvento troncando relazioni sentimentali e amicizie decennali) permettevano di scrivere molte cose e con gran velocità. L’abitudine all’oralità e l’estrema stringatezza resero però necessaria l’introduzione di indicatori di umore che chiarissero il contesto, il tono e il carattere delle comunicazioni: nell’economia dei brevi messaggi testuali, nacquero così le emoticon, riproduzioni stilizzate delle espressioni facciali composte di sola punteggiatura.
I Soloni di cui sopra si affrettarono a escludere che si stesse tornando alla parola scritta, non essendo possibile in nessun modo chiamare scrittura quella fastidiosa sequenza di lettere sbagliate, abbreviazioni improprie e faccine punteggiate che gli SMS erano diventati.
Poi arrivò Internet: i forum, i blog, le email, le chat e, alla fine, i social network.
Difficile dire oggi quante parole vengano scritte ogni giorno da ciascuno di noi: ho anche provato a cercare su Internet, ma non ho trovato nessuna statistica affidabile. Mi sembra comunque evidente che mai si è scritto tanto. Mandiamo mail, scriviamo messaggi, aggiorniamo status, twittiamo, postiamo, commentiamo. E poi auto-pubblichiamo libri, costruiamo intere bibliografie che si suppongono scientifiche schiacciando il bottone di una fotocopiatrice (l’olio di gomito dei vecchi ciclostile almeno misurava la motivazione dello scrivente). Forse scriviamo in vano, senza utilità per nessuno (questo blog né è la prova evidente); forse scriviamo troppo, costruendo castelli di parole intorno alla fragilità del nostro quotidiano. Sicuramente scriviamo male: con troppa fretta, troppa superficialità, troppa approssimazione. Perdiamo per strada punteggiatura e maiuscole, accenti e apostrofi, congiuntivi e condizionali, sinonimi più precisi e locuzioni adeguate.
Eppure scriviamo. L’intero mondo occidentale scrive come mai prima: una massa inusitata di lettere, di parole, di frasi che si riversa su ciascuno di noi attraverso la rete.
Personalmente, giudico con una certa severità la sciatteria del nostro scrivere (pur cadendoci per primo, e non di rado). Ma guardo con grande simpatia a questa nuova messe di parole scritte, all’affannosa costruzione di una lingua sempre più globale, al linguaggio che, immemore delle occasioni formali del tempo che fu, si fa quasi sceneggiatura di discorsi immaginari. Mi piace leggere e, con un certo allenamento nel saper cogliere la web reputation, trovo in rete molti piacevoli e interessanti testi con cui dilettarmi. Mi piace ricevere e scrivere messaggi di posta elettronica (mentre odio telefonare), ne curo la forma e cerco di intrattenere il mio interlocutore. Scrivo molto anche per lavoro, anche più di quanto non mi sia richiesto. Il tutto con buona pace dei Soloni che ci immaginarono analfabeti di ritorno.
Lasciate, con l’indulgenza che si riserva agli amici brontoloni, che concluda questo piccolo ragionamento con la solita morale finale. Dicono che nelle scuole si dovrebbe insegnare l’informatica, addirittura, pare, fin dall’Elementare: mi sembra, se posso, una solenne cavolata. Non serve certo conoscere un linguaggio di programmazione o l’itinerario di un elettrone per farsi largo nella Società dell’Informazione. Servono, mi pare, due fondamentali abilità: saper scrivere e saper cercare. E per scrivere e cercare servono le buone lettere, un po’ di sana logica e qualche solido rudimento di filosofia: e questi chi li insegna ai nostri figli?