Vi devo confessare che questa volta sono preda di una certa ansia da prestazione. Con la storia dell’Armando Pisapia, i visitatori del blog sono stati, martedì scorso, un po’ troppi. Non vorrei che qualcuno tornasse con aspettative eccessive, magari cercando commenti politici intelligenti, o perlomeno sagaci, che temo non troverà. Nelle ultime settimane, per cause di forza maggiore, mi sono occupato di attualità più di quanto non avrei voluto. Ma questa non è certo la mission del Paolone del lunedì.
E quindi oggi torniamo orgogliosamente a quel ciarlare vacuo e autoreferenziale marchio di fabbrica di questo e di ogni altro blog degno di tale nome.
In particolare, come ampiamente preannunciato nei precedenti post, oggi vorrei parlare di nostaliga.
Di quanta nostalgia è capace un uomo? Io, di tanta.
Dice il vocabolario Treccani, tra i pochi rimasti liberi on-line, alla voce nostalgia: “[…] stato d’animo melanconico, causato dal desiderio di persona lontana (o non più in vita) o di cosa non più posseduta, dal rimpianto di condizioni ormai passate, dall’aspirazione a uno stato diverso dall’attuale che si configura comunque lontano”. Con tutto il rispetto, per carità, ma mica tanto d’accordo.
Perché io non mescolerei la nostalgia con il rimpianto. Il rimpianto non mi piace per niente: sa di indecisione, di pentimento. La cosa migliore, in fatto di rimpianti, è non averne affatto.
La nostalgia è tutta un’altra cosa. Appartiene a quella categoria di sentimenti dolceamari che caratterizzano gli struggimenti del contraddittorio animo umano. Qualcuno, in rete, invita a non confondere il concetto di “nostalgia, inteso come struggente malinconia con desiderio di quanto è lontano o perduto, e il concetto di rimpianto, quale ripensamento nostalgico e doloroso di quanto si è definitivamente perduto” (Fasce, 1988).
Io amo la nostalgia, almeno se così intesa. Amo provare nostalgia per qualcosa da cui mi sono temporaneamente separato, mi è sempre piaciuto. Ricordo con dolcezza lo struggimento di bambino nelle sere salmastre, con la nonna Luisa che mi consolava e rassicurava. O le lacrime immancabili l’ultima sera davanti al falò.
L’arte suprema risiede, però, nel provare nostalgia per ciò che non è mai stato, né avrebbe potuto essere. Né abbiamo mai voluto.
Per esempio, provo nostalgia per una vita da agiato architetto sivigliano che, ahi me, non sono. Le giornate che scorrono placide nella vivace provincia andalusa; l’eleganza fuori dal tempo delle opere dei colleghi; l’anno scandito dalle feste: la Semana Santa, la Feria, il Rocìo. L’organizzazione con gli amici della caseta per la Feria de Abril e un ballo schivo per Sevillanas all’imbrunire. Forse perfino un anello d’oro al dito di qualche appartata confraternita.
Provo nostalgia per la vita randagia del basker che non sarei mai stato; suonatore di strumenti improbabili e amico fraterno della giocoliera con le bolas di fuoco. Provo nostalgia degli avi giudei che non ho, immaginando e inventando le storie dello shtetl
dei miei bisavoli, perso nella Galizia remota.
Provo nostalgia per i tempi in cui non abitavo a Barcellona, le passeggiate lungo le Ramblas e la Paella alle Set Portes. La spesa a La Boqueria e la Sardana la domenica mattina davanti alla cattedrale.
E di quando non abitavo a N.Y.C., inquilino abusivo di un loft abusivo, e dormivo di notte per le strade per vedere l’effetto dei luoghi sui sogni.
Eppure sono qui e non a Siviglia (anche se sono architetto), non a Barcelona, non a New York. Eppure faccio la mia vita e mi piace (tutto sommato). Eppure non smetto di avere nostalgia (di desiderare?).