Nati per correre

Nell’estate del 1985 io avevo dieci anni. Questo si può facilmente desumere dal fatto che sono nato il 23 settembre del 1974. Il 23 settembre del 1949, invece, è nato Bruce Springsteen, che quell’estate aveva quindi trentacinque anni.

Io non so dove fossi venerdì 21 giugno 1985, probabilmente ero in vacanza in campagna, nella colonia gestita dalla mia famiglia. Bruce Springsteen, invece, il 21 giugno 1985 era a San Siro, per l’unica data italiana del Born in the U.S.A. Tour, la turné che consacra il suo successo planetario: 156 serate in un anno e mezzo in un incredibile e trionfale viaggio attraverso i cinque continenti. Trattandosi del primo concerto del Boss in Italia, era difficile prevedere l’accoglienza che il nostro paese avrebbe riservato a Springsteen, anche se un consistente contingente di fan italiani si era presentato, l’11 aprile 1981 alla data di Zurigo del The River Tour (e io, che frequentavo la prima elementare, dove sarò stato, l’11 aprile 1981?). Il concerto fu un grandissimo successo, al di la di ogni aspettativa. Nonostante la straordinaria richiesta di biglietti, non fu possibile fissare una seconda data, a causa del rifiuto della Lega Calcio di spostare un Inter – Verona di Coppa Italia; per evitare tensioni fu allestito un megaschermo al Parco di Trenno. Bruce Springsteen considererà questa serata uno dei migliori show di sempre.

Verso la fine di quell’estate, mentre Bruce Springsteen concludeva la turné negli Stati Uniti, io ero al mare con mia nonna. La nonna Luisa aveva una tendenza molto spiccata a viziare il più possibile suo nipote, tendenza di cui io ho sempre goduto senza complessi di colpa. In quell’occasione ne approfittai per farmi regalare le mie due prime musicassette. Furono acquistate, come già ho avuto modo di raccontarvi, nel mitico negozio di dischi del porto di Chiavari ed erano: la compilation Pole Position, che conteneva, in particolare, La Colegiala di Rodolfo Y Su Tipica, dimenticabilissimo ballabile pseudo-latino che allora amavo molto, e, soprattutto, Born in the U.S.A. di Bruce Springsteen, acquistato perché, dopo il concerto di San Siro, tutti parlavano di lui. Era l’inconsapevole inizio di una lunga passione.

The River

Cronologicamente, seguì l’album Tunnel of Love, mentre io scoprivo piano piano tutta la discografia passata: The River e Nebraska (unico che ho in vinile), allora i miei preferiti, ma anche Born to Run, Darkness on the Edge of Town, Greetings from Asbury Park, N.J. e The Wild, the Innocent & the E Street Shuffle (che avevo tutti in musicassetta).

Il Tunnel of Love Express Tour saltò Milano (che smacco!) preferendogli Torino e Roma, credo a causa delle mille beghe che hanno sempre caratterizzato l’uso di San Siro per i concerti. Infatti, quando il 20 e 21 giugno 1992 Springsteen torna nella nostra città con il World Tour per presentare gli album Human Touch e Lucky Town, suona al Forum di Assago. A quel punto io ho quasi diciott’anni, nella colonia di cui sopra ci lavoro come animatore e ho un po’ perso di vista il Boss, dopo i primi anni di ascolti quasi ininterrotti.

The Ghost of Tom Joad mi riconcilia con Springsteen, che nella versione intimista da crisi di mezza età non mi aveva mica tanto convinto. Il disco è accompagnato da un Tour teatrale che approderà a Milano al Teatro Smeraldo l’11 aprile del 1996, mentre io ormai studio architettura; dato lo status di studente pseudo-squattrinato in dirittura di Erasmus, decido di non affrontare l’ingente spesa per uno degli ambitissimi biglietti.

Quello che segue è forse il periodo artisticamente meno felice di Bruce Springsteen e io sono ormai perso nei mille rivoli delle musiche scoperte in giro per il mondo; ascolto i cantautori spagnoli e Manu Chao, divoro tonnellate di Paolo Conte, Tom Waits, Gianmaria Testa e tanto blues e jazz. Ma non dimentico la mia antica passione per il Boss e quando, in una fitta chiacchierata con l’austriaca di cui già vi ho detto, cerchiamo affinità di ogni tipo, Bruce sarà una delle più solide (e il disco The Long Black Veil dei The Chieftains la più bizzarra).

Il 28 giugno 2003 è quindi abbastanza facile ricordarsi dove fossimo entrambi. Bruce era finalmente di nuovo a San Siro, per il concerto della turné di The Rising. Io ero a Rota, e mi stavo sposando. Entrambi fummo sommersi da uno dei più poderosi e incredibili acquazzoni di tutti i tempi, e per entrambi questo ha reso l’evento ancora più memorabile. (Alcuni eroici amici riuscirono a partecipare sia al mio matrimonio che al concerto di Springsteen.)

7 giugno 2005 il Boss torna a Milano, nuovamente al Forum di Assago, per il Devils & Dust Tour. Noi siamo presi da noi, e quasi non ce ne accorgiamo (e il disco forse neanche ce l’abbiamo).

Ma poi esce We Shall Overcome: The Seeger Sessions, disco destinato a ravvivare la passione per il Boss. 12 maggio 2006, quando il Tour passa dal Forum di Assago, la Chrissi ha una pancia gigantesca, che certo non si presta a una performance live. Ma la piccola Luisa, appena cresciuta un po’, salterà come un’indemoniata al suono di Old Dan Tucker, mentre a me Pay Me My Money Down ricorda, ne sono certo, il sciur padron da le bele braghe bianche che non molla le palanche, tanto amato dalla mia nonna Luisa.

Nel novembre del 2007 passa da Milano il Magic Tour, di nuovo ad Assago, ma noi neogenitori del tutto impreparati abbiamo altro per la testa. Il 25 giugno 2008 Bruce è tornato a Milano con la stessa turné, ma io ero a casa, con un crociato maciullato (per tacer del menisco). Nel 2009, il Working on a Dream Tour vedrà invece di nuovo il Boss saltare la tappa meneghina, preferendo serate a Roma, Torino e Udine.

Insomma, in ventisette anni Bruce Springsteen è passato da Milano una decina di volte e io non l’ho mai visto. Almeno fino a qualche giorno fa. Già, perché giovedì 7 giugno 2012, Bruce Springsteen è tornato a Milano, di nuovo a San Siro. Questa volta io c’ero (noi c’eravamo).

Il Boss ha suonato per noi tre ore e quaranta minuti ininterrotti, seconda scaletta più lunga di tutta la sua carriera. Ha suonato We Take Care of Our Own, Wrecking Ball, Badlands, Death to My Hometown, My City of Ruins, Spirit in the Night, The E Street Shuffle, Jack of All Trades, Candy’s Room, Darkness on the Edge of Town, Johnny 99, Out in the Street, No Surrender, Working on the Highway, Shackled and Drawn, Waitin’ on a Sunny Day, The Promised Land, The Promise, The River, The Rising, Radio Nowhere, We Are Alive, Land of Hope and Dreams. E poi ancora: Rocky Ground, Born in the U.S.A., Born to Run, Cadillac Ranch, Hungry Heart, Bobby Jean, Dancing in the Dark, Tenth Avenue Freeze-Out. E poi ancora: Glory Days, Twist And Shout.

Un’esperienza incredibile. Sessantamila persone di ogni età, stile, gusto, tipo: la folla più varia che io abbia mai visto a un concerto, tutti che cantano all’unisono. Io, che mi credevo un fan fedele mi riscopro un tiepido simpatizzante, rispetto a questi ragazzi e a questi signori che conoscono ogni canzone, ogni versetto, ogni mossa. Gente che porta, istoriate sulle t-shirt, le date dei molti concerti visti (pare che ci sia chi ne ha visti più di venti). Che balla, almeno le ragazze, Dancing In The Dark come fosse Courteney Cox sotto lo sguardo vigile di Brian De Palma. Gente che si commuove quando il Boss parla, in italiano, di crisi, di disoccupazione, di terremoto e poi canta la forza di resistere. Gente che sopporta figlie riluttanti, mariti perplessi, mogli glaciali, pur di condividere la loro passione. Che poi, durante l’interminabile, entusiasmante finale, di riluttanti, perplessi e glaciali ne erano rimasti davvero pochi. Perché all’ennesimo, ultimo, bis, un trascinante Twist and Shout a squarciagola, davanti all’umiltà di chiudere il concerto di una grande star con una cover così semplicemente perfetta, hai la sensazione di avere un po’ più chiaro cosa sia il Rock’n’Roll. E di averne vissuto un pezzettino.

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