Questo testo è stato pubblicato sul Forum che accompagna il numero 161 della rivista internazionale di architettura Lotus, dal titolo Meteo Milano. Potete acquistare la rivista, in formato cartaceo o PDF, a QUESTO indirizzo.
Carissimo Direttore,
ho ricevuto la Sua richiesta per un mio contributo al numero dedicato a Milano della Sua prestigiosa rivista e non Le nascondo di esserne stato assai lusingato. Mi dispiace dunque dover declinare il Suo cortese invito, non già perché vi siano chissà quali altre attività da svolgere, ma più semplicemente perché Milano non esiste e sarebbe pertanto difficile scriverne. Milano, é evidente, non esiste, come ebbe a dire l’anonimo protagonista del racconto di Landolfi e come è ampiamente dimostrato dalla letteratura recente, dalla cinematografia, dalla critica e finanche dall’opinione comune.
Milano non esiste: tutt’al più, sembra, come cantava David Riondino, perché le poche volte che di Milano si vuol parlar bene, o almeno parlare, lo si fa paragonandola ad altre città. Che Milano in certi viali pare Parigi, che i suoi inattesi parchi la fan quasi sembrare Vienna, che certe volte la stupefacente vivacità serale e notturna delle sue strade la rende una Barcellona giusto un poco più fredda, che la sua operosità ne fa una Monaco (ancor più) meridionale, che ha un passato industriale che quasi Liverpool o Manchester (che non son solo squadre di calcio). Milano, è evidente, non esiste ma esistono molte Milano.
Altre Milano ancora non esistono nemmeno. Sono Milano che persistono nell’informazione, nell’accademia e nella realtà parallela della rete e dei social network, immagini fantasmatiche dotate di un assai vago riscontro nella realtà.
Non esiste, per esempio, la Milano del tempo che fu: Milano romantica di palazzi modesti ma eleganti che si rispecchiano nelle acque chete dei suoi canali, Milano operosa di cittadini che trasportano con carretti malfermi ogni genere di bene, Milano vivace di capannelli di signori in paletò che discutono nelle sue piazze, Milano industriale di grandi fabbriche che si stagliano nella città. Non esiste la Milano del tempo che fu non solo perché non c’è più, ma anche perché, in quella forma edulcorata che ci piace ricordare, probabilmente mai fu. Non esiste nemmeno la Milano Città Metropolitana: nonostante il Piano Intercomunale Milanese, nonostante la legge 142 del 1990, nonostante gli editti del ministro Del Rio, nonostante il suo sindaco, nonostante la sua pressante necessità. Non esiste la Milano città metropolitana perché ancora non sappiamo dargli confini sensati e una governance efficace, benché già da molto tempo sia realtà. Non esiste, poi, la Milano pianificata: nonostante il Documento di Piano, nonostante il PTR, il PTCP, PGT, il PRG (…urbanistica moderna: nun te reggae più). Esiste una Milano gestita e regolata – a volte meglio, a volte peggio (e non è poco) – ma non esiste la Milano pianificata perché manca da troppo tempo un grande obiettivo da perseguire.
E non esiste la Milano naturale, utopia verdolatra di quest’epoca un poco schizofrenica e un poco viziata, che vorrebbe tutto e il suo contrario: la città e la natura, la comunità e la privacy, il grattacielo e il bosco. Come non esiste la Milano delle periferie, soprattutto di quelle da rammendare. Perché Milano si estende per una superficie talmente ridotta ed è così densamente abitata, che solo una colpevole incuria può aver prodotto periferie che adesso si vorrebbero rammendare, quando forse occorrerebbe mettere mano all’origine degli strappi. Al di là dunque, dell’essere specchio di altri luoghi o dell’essere vittima di stratificate mistificazioni, Milano, è evidente, non esiste.
URBAGRAMMI – dispacci dalla città | Ph. Paolo Mazzoleni
Eppure Milano ha vissuto, negli ultimi anni, una rinascita difficile da negare e – al contempo – difficile da spiegare. Molti fattori, anche tra loro indipendenti e concisi temporalmente (grazie soprattutto a una efficace azione amministrativa, ma anche a una certa dose di fortuna), hanno permesso questo fenomeno, tanto più rilevante se visto nel contesto della crisi che fortemente segna la nazione in questo stesso periodo. Tra questi fattori possiamo certamente annoverare l’Esposizione Universale, il cui ruolo di catalizzatore pare ormai indiscutibile nonostante la difficoltà nel definirne un oggettivo e condivisibile bilancio dei costi e dei benefici. Allo stesso modo occorre riconoscere il giusto ruolo alla conclusione di molte importanti trasformazioni avviate in altre epoche, trasformazioni il cui innegabile e provvidenziale apporto alla vitalità della città trascende il giudizio – spesso severo – che possiamo dare della loro qualità architettonica e urbana. Per dar corso a questa rinascita, occorrerebbe però un Milano che esiste. Azzarderò quindi in questa sede l’improbabile ipotesi dell’esistenza di Milano: una Milano che esiste forse come sommatoria, non necessariamente sintetica, delle sue tante identità, come miscela riconoscibile di ingredienti variabili, come trama mite che supporta la vita dei suoi abitanti. Perché questa è in fondo, per me, la nostra città. Una città straordinariamente piccola per dimensioni in relazione alla sua popolazione e al ruolo che ricopre, percorribile a piedi dalla sua periferia al suo centro. Una città poggiata in gran parte su un disegno direttamente (o indirettamente) ottocentesco, inaspettatamente solido nella sua struttura formale e capace di digerire le molte anomalie che nel tempo si sono su di esso depositate. Una città normale fatta di strade, marciapiedi, edifici. Una città sommessamente bella.
E per questa ipotetica Milano si potrebbero persino azzardare alcuni desiderata che, lungi dall’essere ricette certe o indiscutibili, possano stimolare una discussione sul suo prossimo futuro. Per le grandi aree strategiche (scali e caserme, soprattutto), la cui pianificazione (se non trasformazione) è ormai imminente, credo per esempio necessario congegnare una governance a chiara presenza pubblica che garantisca, da un lato, la corretta localizzazione delle funzioni strategiche e porti, dall’altro, a una possibile re-immissione delle aree nei processi di trasformazione normali del tessuto della città, evitando il procedere per enclave e per mega-progetti (e mega-operatori), modalità che mi sembra abbia evidenziato, nelle esperienze passate della nostra città, tutti i suoi limiti. Nel tessuto ordinario sarebbe importante, poi, proseguire nella liberalizzazione e incentivazione delle trasformazioni del costruito, senza eccessivi timori per i molti edifici modesti che si possono sacrificare e per le inevitabili tensioni dell’auto-nominato comitatismo NIMBY, certi che Milano saprà nuovamente costruirsi su se stessa, come molte volte in passato, e che questa continua trasformazione sia l’anima della sua vitalità. E con l’auspicio che le trasformazioni mettano al centro una sempre maggiore qualità architettonica, qualità tanto difficile da definire quanto evidente nella sua assenza.
Ma probabilmente mi sbaglio, e Milano non esiste: per questa ragione, capirà Direttore, non potrò scriverLe quanto si aspetta.
Cordialmente,
Paolo Mazzoleni