Negli ultimi anni si sono consolidate, presso gli enti locali, le commissioni previste dal Codice dei beni culturali e del paesaggio e alcuni comuni hanno scelto di attribuire loro un ruolo di particolare importanza. Il Comune di Milano definisce, per esempio, la Commissione per il paesaggio come “l’organo tecnico-consultivo incaricato di valutare la qualità dei progetti con particolare riguardo al loro corretto inserimento nel contesto urbano” e, abolendo la Commissione edilizia, consegna alla nuova commissione anche i compiti a essa in passato attribuiti. Questa decisione porta a un cambiamento radicale nel modo di valutare i progetti, essendo la Commissione per il paesaggio nominata con procedure e requisiti differenti. L’Amministrazione milanese ha poi colto l’occasione del Piano di governo del territorio per attribuire alla commissione ulteriori compiti, chiamandola a esprimersi, per esempio, sui casi di discostamento dalle norme morfologiche del piano. In questa direzione sembrerebbe proseguire anche il Regolamento Edilizio in corso di approvazione.
Ho avuto l’occasione di essere membro della prima Commissione per il paesaggio del Comune di Milano, presieduta da Pierluigi Nicolin, e presidente della seconda. In quattro anni abbiamo esaminato alcune migliaia di progetti (dal palo della luce all’intero quartiere); da questo osservatorio privilegiato è stato possibile individuare alcuni temi che riguardano lo stato della produzione corrente di architettura nella nostra città e la difficoltà di incidere sulla sua (scarsa) qualità. Nel 2010, dopo i primi mesi di lavori, la Commissione elaborò e rese pubblico un “Manifesto degli indirizzi e delle linee guida” in cui erano contenute le riflessioni scaturite dall’analisi dei progetti e dove si provavano a fondare alcuni principi di carattere generale che hanno poi condotto il giudizio, raccogliendo riscontri positivi nella città. Mi sembra oggi importante sottolineare l’urgenza di proseguire quei ragionamenti, di cui riassumo qui alcune fondamentali questioni.
Un primo aspetto riguarda l’urbanità dei progetti proposti. Nei decenni passati la maggior parte degli edifici di nuova costruzione rientrava in grandi piani, prima di espansione e poi di recupero, dove la forma insediativa nasceva dal progetto urbano, con prevalenza di opzioni a edilizia aperta (non già l’edilizia aperta radicale immaginata dal Movimento Moderno, né la mimesi contemporanea dell’urbano che andava imponendosi in altri Paesi, quanto piuttosto un vocabolario di corpi edilizi giustapposti su un suolo prevalentemente verde e indifferente). In questo contesto si sono formati progettisti, tecnici, investitori e decisori del processo urbano ed edilizio. Alcuni cambiamenti significativi ribaltano oggi questa prospettiva: le mutate condizioni di mercato, il venir meno del tabù culturale e normativo della sostituzione edilizia, la prospettiva condivisa dell’arresto del consumo di suolo e, soprattutto, il ritorno di interesse per l’abitare in città. L’intervento nel tessuto torna quindi protagonista: costruire compatto, disegnare isolati, completare cortine, segnare angoli e litigare con fili di gronda, distanze e ribaltamenti. La strumentazione si è però spesso dimostrata inadeguata. L’apparato normativo ha solo in parte raccolto la sfida: se da un lato incentivi alla trasformazione e indifferenza funzionale aprono alla riconversione anche minuta di parti sotto-utilizzate o inutilizzate della città, dall’altra i regolamenti edilizi e sanitari si attestano su visioni tardo-positiviste, soprattutto sui temi dimensionali, tipologici e di affaccio (andando peraltro in contraddizione con le tendenze della normativa stessa in tema di risparmio energetico). Anche l’apparato disciplinare dei progettisti sembra a volte segnare il passo: il repertorio formale, linguistico, tipologico, finanche tecnologico degli architetti, costruito sull’esperienza degli anni passati, fatica nel tornare a confrontarsi con la città compatta. Infine, la committenza sembra a volte spaesata dal ritorno alla costruzione urbana e impone parametri quantitativi e funzionali atopici, che non tengono conto della specificità dell’abitare urbano, dei suoi limiti e dei suoi pregi.
In un concorso di cause normative, progettuali e funzionali, nascono quindi gracili edifici di cortina con impostazioni tipologiche e stilemi formali tipicamente periferici, torri urbane orfane di un attacco a terra capace di mantenerle ancorate alla città, frammentazioni innecessarie del tessuto, arretramenti improvvisi, piani terra svuotati di ogni valore e funzione. Questo contornato da un fiorire di facciate verdi, boschi più o meno verticali, grandi balconate che affacciano su tutt’altro che bucoliche vie urbane. Il tutto, come dimentichi di un passato non tanto remoto dove eravamo famosi nel mondo per l’arte del condominio urbano, della cucitura, dell’in-fill, dell’equilibrio virtuoso tra storia e modernità.
Pur non volendo limitare l’azione della Commissione agli aspetti insediativi e morfologici, questa è forse la parte più semplice, per quanto non banale, di un giudizio qualitativo sui progetti in ambito urbano. La Commissione ha potuto esprimersi con chiarezza (ottenendo a volte importanti risultati) avendo come orizzonte una urbanità necessaria, soprattutto nel nostro paese (e nella nostra città) dove è nata e si è consolidata un’idea condivisa di città cui tutta la cultura europea degli ultimi decenni è debitrice.
La difficoltà di valutazione da parte della Commissione aumenta se proseguiamo ragionando sull’aspetto compositivo e linguistico dell’architettura: si entra qui in un ambito oltremodo scivoloso, in un epoca che ha fatto della caduta di ogni riferimento certo la propria cifra (o il proprio alibi). Eppure appare oggi più che mai necessario trovare degli appigli (linee di resistenza, le chiamerebbe forse Umberto Eco) che ci permettano di esprimere pareri anche su questi aspetti. La correttezza costruttiva, la presenza di una relazione tra l’organizzazione compositiva e linguistica e le scelte insediative, l’accortezza nella scelta dei materiali e delle cromie, la condivisione di una tradizione e dei suoi segni consolidati, possono essere considerati terreno comune su cui costruire un’idea condivisa di architettura di qualità.
Da questo punto di vista occorre prima di tutto evidenziare come una parte importante dei progetti che vengono presentati possano essere considerati privi di architettura (a volte, ma non sempre, anche privi di architetti): non ho mai amato la distinzione che si usa fare tra edilizia e architettura, ma questa differenza appare purtroppo in tutta la sua chiarezza guardando i progetti che ci vengono sottoposti. Molti di questi, in particolare tra quelli a destinazione residenziale, appaiono come il montaggio meccanico di tipologie standard, senza alcuna problematizzazione né delle conseguenze progettuali delle opzioni morfologico-insediative adottate né degli aspetti linguistici o compositivi. In questi progetti l’esito architettonico è la risultante di un insieme di forze (quantità, normativa, costi, esigenze della committenza) senza che alcuno si occupi di mediarle o di sintetizzarle. Al contrario, nei progetti che sono oggetto di maggiori attenzioni da parte del progettista e del committente (edifici di uffici, residenze di lusso, alberghi) si ricorre spesso al sistema delle archi-star o a emuli locali. Pur non potendo, in questo caso, parlare di assenza di ‘competenza dell’architettura’, lo spiazzamento non è minore: non possiamo che restare basiti di fronte a principi insediativi fortemente anti-urbani, linguaggi alieni, metafore figurative ardite (pseudo-naturalistiche, retro-avveniristiche, aerospaziali), organizzazioni compositive dubbie. Nell’uno e nell’altro caso l’intervento della Commissione si fa più complesso, anche se non impossibile o inutile, e si fonda di volta in volta nella comprensione delle ragioni interne del progetto e nella relazione che esso instaura con il paesaggio urbano.
Un ultimo aspetto riguarda le buone architetture che, pur venendo in alcuni casi realizzate, paiono incapaci di imporsi nel discorso culturale della città. Perché questo è l’aspetto più significativo di questo momento storico: forse nemmeno nelle epoche che oggi consideriamo d’oro l’architettura di qualità ha avuto una vocazione maggioritaria, ma dalla sua nicchia sapeva essere guida, orientava il gusto e generava fenomeni di imitazione che oggi riteniamo virtuosi. Qui la Commissione può farsi promotrice dei migliori esempi, curatrice di un archivio di buone pratiche che possa poi essere promosso pubblicamente.
Al di la di ciò che finora è stato fatto, non possiamo non farci alcune domande. Come possiamo tornare a possedere e maneggiare serenamente le regole della costruzione urbana? Perché tanti edifici vengono realizzati in sostanziale assenza di un progetto architettonico? Perché i progetti in cui appare evidente e manifesta una volontà formale, sono dominati da linguaggi estranei e discutibili? Perché le architetture appropriate e di qualità non sono in grado di imporsi nell’immaginario della città, di chi la abita e di chi la produce? E come può una commissione consultiva contribuire a migliorare i processi e i progetti, migliorando in definitiva le nostre città?
Qualsiasi strategia per affrontare la situazione attuale non può passare solo per statuti, regolamenti edilizi e linee guida (come evidenzia di recente Giancarlo Consonni). L’introduzione di una valutazione qualitativa, come quella esercitata dalle Commissioni per il paesaggio, all’interno degli iter approvativi rappresenta una importante opportunità per affermare alcuni principi, incentivare le pratiche più virtuose e censurare le meno adeguate. Ma tale azione ha senso, forza e futuro a condizione di non essere lasciata a se stessa. La politica, da un lato, deve sostenere le commissioni formandole con chiarezza e qualità, difendendone e rispettandone l’operato, attribuendogli un ruolo ampio e di respiro ma allo stesso tempo chiaro e ben delimitato. La committenza e la professione, dall’altro, dovrebbero vedere nella qualità un dovere etico e un vantaggio competitivo, riconoscendo nelle commissioni che la tutelano una risorsa e non un nemico. La disciplina, in fine, e quindi l’università, gli studiosi, i progettisti stessi devono però tornare a ragionare su un’idea di città alta e condivisa, di cui le commissioni dovrebbero essere portatrici, paladine, forse interpreti, ma certo non autrici. Solo così possiamo immaginare che l’occasione, a mio avviso assai importante, fornita dall’istituzione delle Commissioni per il paesaggio possa fruttare in un movimento più ampio di ritorno alla qualità dell’architettura urbana.
Originariamente pubblicato in: Urbanistica 152, luglio-dicembre 2014, INU Edizioni, Roma.