Me

Mi piaccion le sbarbine

Eppure qualche sospetto devo averlo destato.

Chessò: quando a otto anni ho chiesto, per natale, una macchina da cucire. Oppure quando, a tredici, ho partecipato, unico maschio, al saggio finale del corso di danza Jazz, fasciato in un’indecente tutina arancione metallizzata. O forse quando, da adolescente, ho divorato tutti i romanzi di David Leavitt.

Dico, qualche sospetto dovrei proprio averlo destato.

Almeno quando ho preteso una Barbie, anche se ufficialmente era per tenere compagnia ai Big Jim sul loro tamarrissimo camper blu. O quando, ad ogni occasione buona, dimostravo assoluto disinteresse per qualsiasi forma di competizione, preferendo sempre, al centro dell’azione, le chiacchiere a bordo campo.

E invece no.

A me sono sempre piaciute le ragazze. Ma proprio tanto. Al punto di preferire stare con loro piuttosto che in campo. Al punto di aver dedicato a loro le migliori energie della mia interminabile adolescenza. Al punto di averne sposata una.

Non ne faccio, qui, una questione erotica (per quanto, per carità, non disdegniamo affatto), ma, piuttosto, un piacere contemplativo, sincera ammirazione, mi verrebbe da dire: dedizione.

È che sono proprio belle, le ragazze.

Unspoken

Si potrebbe fare il giro del mondo galleggiando sui dettagli delle donne di tutti i paesi.

La lingua che guizza, a ogni C e a ogni Z, tra i denti bianchi di una biondina di buona famiglia della Castiglia la Vecchia. O il collo sottile, tra la maglietta tesa e i capelli corti, di una tedesca che lega la bici a un palo, in quelle primavere che a noi sembrano ancora inverno.

Lo sguardo innocente che si affaccia tra le lentiggini di una irlandese, che studia a Dublino ma la mamma ha un bed and breakfast nel Connemara. O il broncio perenne delle francesine intraprendenti e impertinenti, icona di tanto cinema anni 80 (perché le donne sanno perfino nobilitare gli stereotipi più usurati).

L’innocenza stupita di certe ragazzone del nord, incapaci di comprendere il nostro sbalordimento per la lunghezza delle loro gambe e la brevità del loro pudore.

L’ermetismo degli occhi scuri di una piccola portoghese, la divertita superiorità di una danese frizzante, le gambe decise nelle calze a righe dell’olandese giramondo, i fondoschiena strafottenti di due brasiliane nella folla.

E poi c’è l’Italia, che è mondo nel mondo, con infinite declinazioni e sottigliezze. Qualcuno, in un posto davanti al mare, l’ha raccontato meglio di come potrei.

E: uno sguardo che t’incontra per caso da lontano, un sorriso che non ti aspetti, il dito indice di un mano delicata che segue le parole sulla pagina di un libro

E: lo sguardo disarmante, la pelle di velluto, l’immediata famigliarità, il delicato esotismo, le insostenibili teorie, l’ingestibile franchezza, le improbabili coincidenze, il coraggio, la pazienza, la punta del naso dell’austriaca che mi sono sposato.

ascoltando: Jason Mraz, We Sing, We Dance, We Steal Things, Atlantic, 2008.

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