Leggo che Smemoranda, società editrice dell’omonima agenda, è ormai fallita e che nessuno è interessato a quel marchio: l’asta che il 20 gennaio scorso avrebbe dovuto indicare la strada della rinascita è andata deserta, nonostante l’agenda continuasse ad avere successo e si fosse piazzata all’ottavo posto della particolare classifica Feltrinelli relativa alle agende e rubriche più vendute del 2023.
La mia prima Smemo, quella del 1988 acquistata mentre frequentavo la terza media, era già il decimo volume – non a caso dedicata proprio a il numero 10 – dell’agenda-libro edita da quel gruppo di scapestrati milanesi che a poco più di vent’anni si buttarono in quest’avventura e che successivamente (nel maggio del 1986), nei locali del Circolo cooperativo di Unità Proletaria al civico 140 di viale Monza, avrebbero tra gli altri fondato lo Zelig. Da allora il tomo edito annualmente da Gino & Michele (Luigi Vignali e Michele Mozzati) con Nico Colonna è piano piano diventato il diario di riferimento di tantissimi giovani, compagno insostituibile degli studenti delle scuole superiori di tutto il paese.
Lì io e tanti altri abbiamo scoperto, riscoperto, frequentato e amato i personaggi più disparati. Prima di tutto i fumettisti (l’elenco sarebbe troppo lungo, cito solo alcuni tra i più noti e da me preferiti: Altan, Disegni e Caviglia, Giannelli, Matticchio, Staino, Ziche…), ma anche scrittori, comici, giornalisti, pensatori, musicisti, sportivi e chiunque altro potesse solleticare la fantasia dei curatori e dei lettori e aderire agli ideali che con garbo e ironia ma molta chiarezza l’agenda propugnava.
Ma, soprattutto, sulle sue grandi pagine a quadretti abbiamo depositato pensieri, ricordi e speranze.
Io non so quanto siano universali i miei ricordi, ma posso affermare per certo che per noi Gen X di una certa piccola e media borghesia progressista della supposta capitale morale d’Italia in disfacimento, la Smemo era un pezzo fondamentale della formazione, caposaldo della costruzione della nostra identità. Dal 1988 al 1993 e forse oltre, ogni pezzo nella mia vita si è depositato sulle pagine di quel librone che piano piano diventava un monumento autobiografico. Incollavamo tutto, in una vertigine di Pritt e UHU-Stick: biglietti, fotografie, cartoncini, lettere d’amore… ogni cosa. L’agenda arrivava a duplicare o triplicare il suo spessore, squadernandosi sotto la spinta delle nostre vite intensamente vissute. Un autoritratto in formato di collage, tra Braque e Wahrol.
La musica, prima di tutto: per me Bruce Springsteen, Eric Clapton, i Blues Brothers e tutto il blues. La musica dei fratelli maggiori (anche per me che non ne avevo): i Doors, i Pink Floyd, il Rock americano e inglese. Ma anche qualche raro italiano (i Litfiba, per esempio) e le prime incursioni nel jazz. Incollavamo i biglietti dei concerti (il primo visto “senza genitori”, Zucchero Sugar Fornaciari all’Arena di Milano il 17 settembre 1989), ritagli di giornale, volantini, pezzi di fanzine.
E poi le gite, i viaggi, le piccole escursioni. Attaccavamo biglietti del treno, dell’aeroplano, dell’autostradale. Fotografie, per lo più mosse e sfuocate, stampate ai mini lab: Populonia o New York, il Lago di Como o le spiagge di qualche mare scarsamente esotico, Parigi (ah, Parigi…), Praga o le campagne tra l’Adda e il Ticino.
C’era la politica di cui, generazione del riflusso, prendevamo con cautela le misure: su una delle prime pagine della Smemo di prima liceo, l’adesivo della prima manifestazione a cui sono stato, quella del 5 ottobre 1988 a sostegno della democrazia in Cile (e lo stupore nel vedere i ragazzi dimenarsi mandando dagli altoparlanti legati sul furgone bianco le canzoni degli Inti Illimani, che per me erano dischi “dei genitori”).
Ma anche le altre passioni. Sulle mie prime Smemo decine e decine di automobili ritagliate e incollate (e qualcuno, che pur allora mi conosceva, mi chiede da dove sia uscita questa mania del Michi per le auto…). L’arte che scoprivamo affrancandoci dalla cornice dovuta delle guide verdi del Touring Club: Keith Haring, Andy Warhol, le fotografie di Mapplethorpe con quei nudi potenti e perturbanti. La poesia, purché non si studiasse a scuola: per me pagine e pagine di Walt Whitman.
E poi le ragazze… uh, le ragazze! Le cotte impossibili, i piccoli flirt, qualche amorazzo estivo, qualcuna che a rileggere il nome non ci ricordiamo più e gli amori invece mai dimenticati.
E poi c’era l’aspetto sociale. Come ha detto Nico Colonna in un’intervista a Repubblica nel 2019, la Smemo fu in qualche modo antesignana dei social network: tutti ricordiamo l’usanza per cui «si faceva girare tra i compagni per avere una frase, una firma, una parolaccia». E a rileggerla oggi si trovano commenti, massime, affermazioni strampalate… davvero come una bacheca di Facebook fatta con pennarelli Stabilo e penne Bic.
Insomma, più o meno consciamente, in quei tomi tenevamo un vero e proprio diario. Chi l’avrebbe mai detto.
Sono un ragazzo fortunato, diceva quel Jovanotti che allora odiavamo e che più tardi avremmo amato. Sono un ragazzo fortunato e ho un rapporto molto positivo con tutto il mio passato, pochi rimpianti e tanti ricordi bellissimi. Quegli anni dell’adolescenza, però, passati tra i banchi di un anonimo e scalcinato liceo di periferia e tra le strade della città, hanno un sapore speciale, che difficilmente dimenticherò. Non so se il mondo fosse migliore, non credo (diffidate di chi lo afferma, ha solo nostalgia dei suoi vent’anni), non credo nemmeno fosse peggiore, certo era molto diverso. Ma noi avevamo tutta la vita davanti e il cuore che scoppiava di speranza. Gli amici di allora sono gran parte di quelli che ancora oggi mi accompagnano. Gli ideali, pur segnati da decenni di dura realtà ricevuta a badilate in faccia, anche. Perfino i gusti non sono cambiati poi così tanto.
Oggi i miei figli hanno l’età che avevo io quando costruivo quelle Smemo e, quasi senza accorgermi, facendolo costruivo me stesso. Ripescando da uno scaffale dimenticato della mia camera di allora questi malfermi libri dei sogni, dopo averli sfogliati non senza qualche fremito, mi sono trovato ad augurarmi con tutto il cuore che anche loro, quale che sarà la forma con cui avranno depositato e ritroveranno i loro ricordi, possano costruirsi con libertà e con una ragionevole fiducia nel futuro e trovarsi tra trent’anni a guardare con affetto le promesse che si erano fatti.