In occasione dell’anniversario della legge del 1923 che regolamentò la professione di architetto, l’Ordine degli Architetti di Milano e la sua Fondazione hanno organizzato un programma di iniziative incentrate sui 100 anni di professione e sui 100 anni di architettura. Un programma di 10 eventi, dedicati ognuno a un decennio, costituiscono durante il 2023 un racconto corale, dove alla voce dell’Ordine e della Fondazione si affiancano quelle di 10 curatori e di tutti gli architetti iscritti che parteciperanno attivamente. Dopo i primi sei eventi – il 1° dedicato agli anni ’20 con un seminario, il 2° sugli anni ’30 con conferenza e itinerario di architettura, il 3° sugli anni ’40 con un excursus su libri e riviste dell’epoca e un itinerario, il 4° dedicato agli anni ’50 con una visita al Museo del Design Italiano di Triennale di Milano, un itinerario, un forum tavola rotonda e una mostra fotografica , il 5° sugli anni ’60 con una giornata di studi in Triennale Milano e una mostra in sede, il 6° sugli anni ’70 con una mostra e una serata di architettura, mercoledì 11 ottobre la programmazione è proseguita con un evento sul decennio 1983-1993, curato da Laura Montedoro in collaborazione con il consigliere Giovanni Oggioni.
L’evento, dal titolo Cosa resterà di questi anni Ottanta. Cosa è restato, si compone di un Pecha Kucha, di una mostra e di una tavola rotonda. I curatori hanno pensato di invitarmi alla sessione super-veloce dei Pecha Kucha, insieme a Emilio Battisti, Sonia Calzoni, Giacomo De Amicis, Giordana Ferri, Alessandro Frigerio, Carlo Gandolfi, Laura Montedoro, Carolina Pacchi, Orsina Simona Pierini, Vito Redaelli, Marcello Rossi. Di seguito più o meno quello che ho detto.
Cosa resterà di questi Anni Ottanta? Macerie.
Mi sono iscritto alla Facoltà di Architettura nell’ottobre del 1993 (esattamente trent’anni dopo mio padre, ma questa è un’altra storia). Il 1993 è l’anno in cui – secondo la lettura critica proposta dai curatori, almeno come l’ho intesa dai post su Instagram – si conclude il decennio di cui parliamo questa sera. Ho quindi forse sbagliato serata, vi aspetto giù al rinfresco. No? Vabbé.
Dunque, quando – finiti gli anni Ottanta, dopo aver passato un test d’ingresso che lasciava a casa tre quarti dei pretendenti – iniziammo a studiare Architettura al Politecnico di Milano, diradata la nebbia del nostro immotivato entusiasmo, trovammo un paesaggio di macerie.
Ecco cosa era rimasto degli anni Ottanta: macerie.
Vestite fresche fresche di un promettente Nuovo Ordinamento, con laboratori, numeri finalmente umani, uno sgabello per tutti (o uno sgabello per ciascuno, per dirlo con Rogers) ma pur sempre macerie. Non me ne vorranno i presenti che furono compagni di quella sventura, o troppo giovani per esserne la causa, o tra le rare eccezioni. Ma per il resto: macerie.
Sopravvivemmo in qualche modo, passandoci i pizzini dei pochi professori in grado di insegnarci qualcosa di vivo, quando la versione ufficiale era che l’architettura fosse morta. Il giovane Zucchi, l’irascibile Battisti, la granitica Baffa, Fortis che sembra rossiano ma pare avesse costruito delle cose vere, pochi altri. Era un cammino tra le macerie faticoso e scoraggiante.
Ci salvò Sofia Corradi, che trent’anni prima – mentre altri costruivano le fondamenta di quel paesaggio di macerie – aveva inventato il mitico Erasmus. Ci salvarono i Dorigati, le Molon, i Vogliazzo che ci spedivano in giro come pacchi di un’Amazon di là da venire (guardate là fuori chi della mia generazione fa architetture di qualità, e vi toglierete ogni dubbio), ma soprattutto ci salvarono Madrid, Siviglia, Valladolid, Porto, Lisbona, Delft, Lund…. E ci salvò la nostra pervicace, coriacea, stoica voglia di fuggire dagli anni Ottanta. E le fidanzate e i fidanzati che trovammo laggiù.
Organizzammo anche una mostra che, con l’arroganza dei vent’anni chiamammo Emigranti, dove provavamo a raccontare a chi non si voleva (o poteva) schiodare, cosa stesse succedendo là fuori.
Sopravvissuti alla meno peggio a questa attraversata del deserto, alcuni di noi si dedicarono recidivi a un corso di dottorato, nel mio caso non prima di aver completato il servizio civile svolto facendo il bidello in una scuola materna. Il dottorato mi ha insegnato molte cose. Alcune più ovvie e istituzionali, altre meno. Tra le seconde: lo scarsissimo valore del mio tempo, l’importanza di sapersi imbucare ai convegni, l’arte di individuare i convegni con i buffet più ricchi e la capacità di sapersi imbucare ai convegni con i buffet più ricchi.
Una volta finito il dottorato, ho esercitato con dedizione per anni ciò che avevo appreso. Per esempio, nell’ottobre 2010 ho visto passare un convegno che mi sapeva di grande occasione e ricco buffet, e non me lo sono lasciato sfuggire. Si trattava del primo (e, a quanto mi risulta, unico) convegno di Idee Italiane, progetto promosso dalla Fondazione per l’Istituto Italiano di Scienze Umane presieduta da Gae Aulenti. Il convegno, supportato da Fondazione Corriere, Fondazione Cariplo e Fondazione Pirelli si svolse all’auditorium Pirelli HQ, forse l’edificio più bello della (discutibile) Bicocca gregottiana, e l’organizzazione era senza dubbio di livello.
La giornata a cui partecipai era il secondo appuntamento di una due giorni ed era dedicato allo stato e alle prospettive dell’architettura italiana. Il prestigioso panel prevedeva, dopo un’introduzione di Gregotti, interventi di Carlo Magnani, Luca Molinari, Fulvio Irace, Franco Purini e Bernardo Secchi: alcuni più interessanti, altri meno (lascio a voi indovinare quali). Ma poi è venuto il turno di Rafael Moneo, architetto che per noi emigranti dell’architettura era un riferimento assoluto.
Moneo fece un lungo e appassionato intervento, tutto in italiano, dedicato all’architettura del nostro paese, da prima della guerra alla contemporaneità, così come poteva essere vista da uno studioso straniero. A parte la mia particolare passione per l’italiano parlato con la morbidezza di chi viene dal castigliano, credo di poter dire che fu un discorso memorabile.
Una disamina asciutta e ficcante di come fossimo arrivati a essere un riferimento internazionale per la cultura e per la teoria architettonica europea (se non mondiale) e, soprattutto, di come da lì fossimo scivolati inesorabilmente nell’irrilevanza. Un intervento duro ma affettuoso, con quell’affetto di chi guarda al cugino più grande che ha tanto amato e idealizzato quando lo vede perso e non capisce perché.
Ho ritrovato quel testo, che credevo perduto, sul libro curato da Carmen Diez Medina e Simona Pierini per i generosi tipi di Christian Marinotti (facendo peraltro una memorabile figura di palta con la suddetta Simona, ma anche questa è un’altra storia).
Quel discorso fu per me una rivelazione e anche rileggendolo oggi risulta di una chiarezza e spietatezza rari nella nostra cerimoniosa disciplina. Solo ascoltando Moneo compresi che quelle macerie erano esistite davvero, e non apparivano solo allo sguardo ingeneroso della nuova generazione che cerca di farsi largo. E che non erano frutto del caso, ma di una dinamica precisa e descrivibile, una dinamica che aveva padri e madri, fomentatori e fiancheggiatori, ragioni ideologiche e strutturali. Che aveva dei colpevoli.
E che le medesime dinamiche avevano costruito l’irrilevanza del discorso architettonico italiano tanto sulla scena internazionale quanto su quella urbana, lasciando la città preda di progettisti di scarsa o impropria formazione e ancora più modeste aspirazioni.
Proprio mentre Moneo tirava le somme di quell’infausto ventennio, la crisi globale stava spazzando via il mondo per come lo conoscevamo. Almeno a Milano (altrove non ne sono così certo), il mondo che è faticosamente rinato dopo la bufera dei sub-prime si è lasciato alle spalle tutto quanto, portandoci in un altrove. Un altrove non privo di drammatiche criticità, ma che sicuramente ha visto il progetto tornare ad affacciarsi sulla scena urbana, ha visto architetture italiane tornare a essere conosciute nel resto del mondo (anche se lontano dagli splendori del dopoguerra), ha visto il consolidarsi di una categoria professionale solida e colta che ha finalmente ricucito lo strappo tra teoria e pratica che i nostri padri avevano eletto totem inscalfibile.
Con una certa calma, se ne sta accorgendo perfino l’università. Nelle immagini sopra riporto ingenerosamente i commenti degli studenti ad alcune delle tavole appese a metà 2014, risultato di un workshop sul futuro degli scali organizzato dalla facoltà di Architettura Civile, quella della Bovisa per intenderci, destinata di lì a poco a venire chiusa e riassorbita in un’unica facoltà. Forse anche quella stagione è chiusa per sempre.
E se oggi possiamo dedicarci, con un po’ di malizia e di gusto per il paradosso, a fingere di rimpiangere quell’epoca apparentemente lieve della Milano da bere e dell’architettura di carta, lo possiamo fare anche perchè sappiamo che è un passato lasciato alle spalle, che grazie a Dio (e all’Erasmus) non tornerà.
Ma, soprattutto, perché l’architettura è tornata ad essere lingua viva.