Lupo Ulula

Come ci racconta Nick Hornby, ogni anno, Will Freeman attende con sofferenza il momento in cui sentirà di nuovo, nella filodiffusione di qualche grande magazzino, “La super-slitta di Babbo Natale”, hit del defunto padre che, con le royalties, gli permette di vivere da nullafacente di lusso. In effetti, il clima natalizio piomba ogni anno sulle nostre vite con dirompente puntualità, proiettandoci in un turbinio di consumismo e senso di colpa, dolcetti e sdolcinatezze, babbi natale e renne-dal-naso-rosso, pacchetti e lucette. Questo clima è anche, credo per tutti, tempo di nostalgie. Si indugia, in particolare, sui ricordi dell’infanzia. Non so cosa comprenda, per voi, la definizione di clima natalizio; per me comprende, con ruolo quantomeno di co-protagonista, Frankenstein Junior.

Perché, quando ero piccolo, e i canali televisivi erano ancora pochi, analogici e terrestri, la programmazione natalizia conteneva alcune costanti che diventavano, per noi bambini, dei riti. Tra queste, in una sera nei giorni tra natale e capodanno, la visione dell’indimenticabile film di Mel Brooks.

C’è una parte del film che credo di aver visto, citato e sentito citare centinaia di volte. Frederick (un ispiratissimo Gene Wilder) è arrivato in Transilvania, siede insieme alla bella Inga (Teri Garr) nel retro del carro condotto da Igor (l’inarrivabile Marty Feldman). Si sente un ululato, ne segue l’incredibile dialogo:
”  Inga: Lupu ulula.
   Freddy: Lupo ululà?
   Igor: Là!
   Freddy: Cosa?
   Igor: Lupu ululà e castellu ululì!
   Freddy: Ma come diavolo parli?
   Igor: E’ lei che ha cominciato.
   Freddy: No, non è vero.
   Igor: Non insisto, è lei il padrone. Beh, ecculu là. Casa!”

Si tratta della straordinaria traduzione di un testo in inglese che ogni uomo ragionevole avrebbe semplicemente considerato intraducibile:
”  Inga: Werewolf.
   Freddy: Werewolf?
   Igor: There.
   Freddy: What?
   Igor: There wolf. There castle.
   Freddy: Why are you talking that way?
   Igor: I thought you wanted to.
   Freddy: No, I don’t want to.
   Igor: Suit yourself, I’m easy. Well, there it is. Home.”

In effetti, ne sono certo, tutti voi conoscete benissimo questo dialogo. Ma credo che nessuno di voi (addetti ai lavori e feticisti cinematografici vari esclusi) sappia chi sono Mario Maldesi e Roberto De Leonardis. Beh, sono gli autori di cotanta meraviglia. Ogni volta che citiamo quel passaggio, citiamo, inconsapevolmente, loro. Sono loro che, prendendosi grande libertà nella traduzione e sfruttando a fondo l’arte di doppiatori del calibro di Oreste Lionello, Gianni Bonagura e Livia Giampaolo, hanno contribuito al grandissimo successo nel nostro Paese di questo film (peraltro già splendido di suo).

 

In piazza Castello 27, a Milano, in un severo edificio ottocentesco, sulla destra, al piano rialzato, c’è un posto davvero speciale. È lo studio (oggi museo, almeno fin che ce la faranno a tirare avanti in un momento economicamente difficile per tutti) di Achille Castiglioni. E, nello studio di Achille Castiglioni, c’è una vetrinetta piena di oggetti comuni. Questi oggetti, di ignoto autore, segnano la nostra vita di tutti i giorni ed erano, per Castiglioni, fonte di continua ispirazione.

Castiglioni, che ha disegnato alcuni dei pezzi più famosi del design industriale di tutti i tempi, esposti nei musei di tutto il mondo e nelle case di intendinditori e VIP di vario genere, amava ripetere che l’oggetto di cui andava più fiero ere l’interruttore disegnato per VLM nel 1968. Migliaia di persone ogni giorni utilizzano questo oggetto, dal disegno rettilineo ma delicato e dal click sonoro e rotondo, davvero inconfondibile. Un oggetto da pochi euro che si usa (e si apprezza) ignorandone l’autore. Con questo progetto Castiglioni riteneva forse di essersi meritato un posto nella su stessa vetrinetta.

 

Quanti Mario Maldesi e Achille Castiglioni hanno riempito la nostra vita di cose meravigliose, semplicemente facendo bene il loro lavoro? Quando ci penso, è una cosa che quasi quasi mi commuove. Sarà il consumismo esasperato del capitalismo avanzato, sarà l’immaterialità dell’era informazionale, ma a volte ho la sensazione che oggi si tenda a considerare tutto effimero, a dimenticare quanto diffusamente e quanto a lungo qualcosa possa partecipare alla vita di tutti noi. E, forse conseguentemente, si tenda a fare le cose di fretta e male. Non è davvero un peccato?

 

Noi architetti abbiamo la superbia di affermare che il nostro lavoro richiede particolare responsabilità, perché i suo prodotti si impongono alla gente, che è costretta a vederli e, magari, a utilizzarli, senza averli scelti. Ma noi architetti raramente siamo disposti ad accettare la fatica e la serietà che questa responsabilità ci imporrebbe.

Inizia a scrivere il termine ricerca qua sopra e premi invio per iniziare la ricerca. Premi ESC per annullare.

Torna in alto