Lettera ai miei figli

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Lettres de Lou

Lettera ai miei figli, Luisa e Michele.
(e.p.c. a Pier Luigi Celli e suo figlio, a disfattisti e fuggitivi, a immigrati e emigrati, a cervelli in fuga e corpi rimasti qua)

Cara Luisa e caro Michele,
mi rendo conto che è prematuro iniziare a discutere del vostro futuro, ma qui la cosa è molto à la page e pare non ci si possa esentare. Forse è un po’ presto per conoscere le vostre inclinazioni, le vostre passioni e le vostre capacità. Forse ora dei vent’anni avrete deciso che “fare le pulizie” (Luisa) e “tatà cossa forte forte” (Michi) non siano necessariamente i vostri sbocchi professionali. Comunque meglio prepararsi per tempo.

Fatte le debite premesse, eccettuate le eccezioni e distinti i distinguo, qui tutti consigliano di darsela a gambe. In effetti le migliori menti della mia generazione se ne sono ormai andate, e se ve lo dico io che sono rimasto…

Non c’è che dire, è dura. Il grosso del paese vive di rendita, grandiosa o sgarrupata che sia; rendita degli avi, rendita di posizione, rendita politica, rendita mafiosa. La meritocrazia è merce da bassa retorica, tutti la invocano ma nessuno più si ricorda nemmeno cosa sia. SUV luccicanti viaggiano a gran velocità su strade scassate e inadeguate, come in un qualunque Qualcosistan in via di sviluppo. A pagar le tasse si fa la figura del pirla e far politica è diventata una parolaccia.

E quindi viene da chiedersi: ma che Italia vi lasceremo?

Quando sarà il vostro turno non potrò non cercare di aiutarvi. Spero che saprò farlo parlando con voi e non con un amico potente. Consigliandovi in una decisione e non consigliandovi a un decisore. Aiutandovi ad aiutarvi da soli. Chissà.

Nel mentre, mi porto avanti.

Vorrei proporvi una piccola riflessione. Se possediamo le peggiori università del globo terracqueo (o almeno nessuna delle migliori 200) e ciò nonostante riusciamo a formare eccellenti studiosi che tutti ci rubano; se abbiamo amministrazioni scalcagnate perse nei loro problemi e ciò nonostante abbiamo il Fuorisalone, il Festivalletteratura e Umbriajazz; se abbiamo un sistema sanitario a tratti medioevale e ciò nonostante ospitiamo eccellenze della ricerca e della medicina; se non sembra esserci un nesso tra un paese che va a scatafascio e tanti piccoli miracoli quotidiani, quale è il segreto?

Nel calcio, quando la nazionale italiana perseverava a vincere nonostante la manifesta inferiorità atletica e tattica dei suoi giocatori, si parlava di “fattore C”, insomma, di una irragionevole fortuna. Anche qui la fortuna magari aiuta, ma certo non basta. Altri sono gli ingredienti che rendono possibili le improbabili eccellenze italiane. La passione, che ci porta spesso oltre ogni limite ragionevole, la creatività, forse allenata anche dalle difficoltà, e il nostro leggendario culone di pietra, che spinge ambiti scienziati, manager e professionisti a non lasciare il rione dove sono nati, nemmeno sotto minaccia di cariolate di dollaroni.

E se già che ci (o vi) tocca questo postaccio, ci rimboccassimo le maniche? Se provassimo a mandare a ranare disfattisti, parassiti, maleducati e cinici sapientoni e ci dedicassimo allegramente a ramazzare la nostra terra? Forse qualcosa si può ancora fare, rimanendo qui; forse la nave non è per forza destinata ad affondare.

Certo, lontano potrete forse fare meglio: far lavori più interessanti e ben pagati, vivere in un Paese ben governato, magari ordinato, forse addirittura giusto; non vi biasimo se deciderete di andarvene. Ma la sfida di rimettere in carreggiata il nostro sgangherato Paese non vi attizza nemmeno un po’?

Comunque, forse non è una buona idea impicciarsi delle vostre faccende. Forse la cosa migliore è che facciate un po’ quel che volete, senza stare qui ad ascoltare le paturnie del vostro inopportuno padre. Ma se avrete voglia di rimanere, in tanti ve ne saremo grati. E magari ci divertiremo anche.

 

A proposito di padri inopportuni, sicuramente conoscete tutti i famosi libri di un filosofo che in italiano si intitolavano “Etica per un figlio” e così via. Il titolo originale si basava su un riuscito gioco di parole: “Ètica para Amador”, dove Amador poteva stare per “non professionista”, ma poteva essere anche il nome di una persona. Alcuni anni fa ho avuto il piacere di conoscere il figlio di tale filosofo. Ora, dovete sapere che il poverino si chiamava davvero Amador. E viene il lecito sospetto che quello psicopatico del padre lo avesse chiamato così, vent’anni prima, per poter intitolare i libri con il simpatico calembour. Robe da pazzi, altro che lettere ai figli. Il buon Amador, dal canto suo, aveva risolto in maniera eccellente il suo gigantesco edipo con una discreta dose di ribellione, tantissima ironia e un appetito pantagruelico. Era davvero un tipo simpatico.

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