Da un po’ di tempo leggo La Stampa con una certa frequenza e con piacere. Sarà Mario Calabresi, sarà la presenza di alcuni editorialisti che stimo (Irene Tinagli soprattutto, ma anche Gianni Riotta, Mario Deaglio e tanti altri, senza dimenticare il golem-melog-hiano Gianluca Nicoletti). Sarà il prode Gramellini, che quando non è troppo populista o troppo Fazio-so è un vero piacere da leggere. Sarà che il tutto (o quasi) è gratis su iPhone. Fatto sta che ormai sono un lettore abbastanza assiduo del giornale torinese.
Qualche tempo fa, però, ho letto su questo giornale un articolo che mi ha lasciato molto perplesso. La Stampa ospitava Francesco Guerrera, caporedattore finanziario del Wall Street Journal a New York. Senza volere qui semplificare troppo i ragionamenti articolati e ben argomentati del giornalista, vorrei richiamare il passaggio che mia ha colpito di più:
“Il vero problema è se i giovani di belle speranze di Harvard, Oxford e della Bocconi decidono in massa che la finanza non fa più per loro, perché la vedono come sporca, poco lucrativa od entrambe. O se le banche, incapaci di fare soldi come un tempo, smettono di assumere. Se ciò accadesse, il riflesso condizionato dell’opinione pubblica sarebbe quello di applaudire il ridimensionamento della finanza.
Attenzione, però, alle conseguenze a lungo termine. Un «drenaggio dei cervelli» in un settore così fondamentale potrebbe avere serie ripercussioni per il resto dell’economia.”
Il mio leggendario (e più volte qui richiamato) culopietrismo, fa si che mi accompagni ancora, per la gran parte, con amicizie di vecchissima data, senza disdegnare parenti stretti e lontani. Si usa dire che gli amici te li scegli, mentre i parenti no. Sicuramente vera la seconda (anche se un libro che piace molto ai miei figli sostiene il contrario), ma, in fondo, anche gli amici dell’adolescenza è difficile pensare che siano scelte particolarmente coscienti. Eppure molti tratti accomunano la gran parte delle persone a cui sono più legato. Sarà un ceto di provenienza abbastanza simile (anche se non identico), sarà un retroterra culturale paragonabile (anche se certo non omogeneo), sarà che, crescendo, ci siamo influenzati l’un l’altro. Comunque, guardando ai coetanei che mi circondano, amici e parenti, mi sembra di vedere una comunità con parecchie caratteristiche in comune.
Per esempio, la maggior parte (praticamente la totalità) di noi ha fatto studi tecnici o sociali, mentre nessuno ha lauree in economia. Abbiamo tutti cominciato con lavori scelti con passione, e non solo badando al portafogli. Ci sono ingegneri, architetti, medici, psicologi, perfino un filosofo. Che hanno scelto di fare gli ingegneri, gli architetti, i medici, gli psicologi, perfino gli sviluppatori web.
Si tratta, in gran parte, di persone intelligenti e dotate — la vita lo ha dimostrato più di quanto le scuole non seppero riconoscere a suo tempo — che ritengo possano essere ragionevolmente utili al mondo. La maggior parte di loro, vi dicevo, ha iniziato a lavorare seguendo più le vocazioni e le passioni che il calcolo economico. Oggi molti di loro si occupano di finanza. O di banche. O di vendita. Insomma, quella roba li. Almeno fino ad ora, l’esatto contrario di quanto temuto da Francesco Guerrera nel suo articolo.
Le migliori menti di una generazione hanno abbandonato mestieri di ogni genere in cui facevano cose per approdare a mansioni manageriali o finanziarie. C’è che ha investito patrimoni in tostissimi e rinomati M.B.A. e chi si è riciclato con acume e spirito autodidatta. C’è che vende aggeggi di sutura e chi compra energia elettrica, chi vende soldi e chi compra denaro, che consiglia chi vende e chi consiglia chi compra quelli che vendono.
Niente di male, ci mancherebbe.
Però.
Sarò un vetero-marxista impenitente (ma non credo), sarò un inguaribile figlio di sessantottini (ma non mi pare), sarò un polveroso cattocomunista (come inspiegabilmente pensano in tanti), ma mi vengono spontanee alcune domande. Ma se tutti comprano e vendono e consigliano, ma chi è che fa? Dove va un mondo dove le aziende spendono più per promuovere che per produrre, più per finanziare che per innovare?
Sono ormai una persona ragionevole, o faccio del mio meglio per fingere di esserlo, e sono pronto a sostenere, almeno in pubblico, che la finanza sia una parte necessaria del nostro sistema, che non ci sia nulla di male a guadagnare soldi facendoli girare, o almeno facendolo alla luce del sole.
Ma non sono ancora pronto ad abbandonare un romantico attaccamento per il fare, per l’ingegnere con la penna bic che disegna macchine fantasmagoriche, per l’imprenditore che re-inventa la penna bic che serve all’ingegnere, per il medico che ti cura, per l’architetto che progetta i luoghi dove vivi, al limite perfino per chi disegna i siti che visiti virtualmente. Gente che fa cose, niente di più. Non dico che dovrebbero comandare il mondo (o forse si?) ma mi piacerebbe almeno che non fossero considerati di serie B, che non guadagnassero un ventesimo di un broker ventenne strafatto del suo stesso testosterone (a proposito di guadagni, Adriano Olivetti, ingegnere per antonomasia, sosteneva che “nessun dirigente, neanche il più alto, deve guadagnare più di dieci volte l’ammontare del salario minino”, e non era certo un vetero-marxista; non che la questione sia puramente economica, ci mancherebbe, ma a fronte di certi stipendi, il dubbio ti viene).
In definitiva, al contrario delle preoccupazioni che affliggono Francesco Guerrera, credo che uno dei tanti mali della nostra epoca sia proprio la fuga di cervelli verso la finanza, dove lauti guadagni e grandi soddisfazioni attirano molte delle migliori menti di una generazione. A fare le cose per davvero siamo rimasti solo noi, un po’ tarlucchi, romantici demodé ancora schiavi di un ideale quasi ottocentesco dell’imprenditoria e delle professioni. Siamo tipi interessanti e spesso simpatici, ma non sono le qualità cui bada il tizio in gessato con relativo M.B.A. che fissa i criteri per concedere i mutui.
Da poco meno di un anno Christian Rocca dirige “IL”, magazine maschile del Sole 24 ore. Molte cose mi dividono da Christian Rocca, specialmente in questioni di politica. Ma molte di più mi uniscono, soprattutto in questioni musicali. E, da quando lo dirige lui, IL è un giornale davvero speciale. Il numero 46 del mensile, uscito nel novembre 2012, porta il suggestivo titolo “un governo di politecnici” e sostiene, in modo molto più completo, complesso e argomentato, e con una grafica straordinariamente più figa, grosso modo quello che cercavo di spiegarvi qua sopra. Procuratevelo, ne vale la pena.