Alcune sere fa ho visto il bellissimo e generoso spettacolo di Maddalena Crippa che, con un coraggio che rasenta la spericolatezza, riporta in scena i testi di Giorgio Gaber e Sandro Luporini della metà degli anni Novanta. Il testo, anche se in parte modificato, è ancora largamente fedele all’originale e risulta incredibilmente attuale. Certo, la partita si gioca sul filo del populismo, ma senza mai abdicare a un coraggioso senso civile che conquista.
Lo spettacolo è molto bello e lo sono anche le musiche, arrangiate da Massimiliano Gagliardi, che accompagna al pianoforte sul palco insieme a Chiara Calderale, Miriam Longo e Valeria Svizzeri. Le tre ragazze, oltre a cantare straordinariamente bene, si muovono sullo sfondo stagliando eleganti silhouette nella luce, come in un Almodóvar stranamente sobrio. La scenografia, le luci e la regia, calda e minimale, mi sono piaciute davvero tanto e mi hanno proiettato in uno dei miei inopportuni viaggi: quel tipo di esperienza che mi ha spinto, più di un anno fa, a decidere di scrivere il Paolone.
La mia mente, come sapete irrimediabilmente afflitta da una tardiva e molesta ADHD, ha iniziato a soffermarsi su una serie di dettagli sempre più periferici. Il tizio in terza fila con il viso illuminato dallo schermo dello smartphone, che non è chiaro cosa abbia di furbo; le luci delle uscite di sicurezza, goffe e scoordinate; il chiacchiericcio dietro di me…
E così ho pensato: ho la sensazione che ogni giorno ci priviamo di cose molto importanti, spesso senza che sia chiaro in che modo ci dovrebbero giovare, queste rinunce.
Ci priviamo del buio, per paura di non trovare l’uscita. Ci priviamo del silenzio, per ripescarlo in pochi imbarazzati momenti suppostamente solenni. Ci priviamo delle rime; e dell’italiano ben scritto, delle parole esatte, dei tempi verbali necessari. Ci priviamo dell’andare, vivendo nella perenne necessità di essere già la.
Ci priviamo della città, dimentichi di perché la scegliemmo, e lasciamo che alcuni la violentino per farne soldi sonanti mentre altri la temono e la calunniano, prigionieri di un luddismo provinciale fuori-tempo-massimo.
Ci priviamo del gusto di capire, proprio ora che tutto pare a portata di mano, e ci accontentiamo di un’informazione troppo spesso sciatta e incompetente. A proposito: com’è successo che siamo passati dalla stampa libera alla free press? Ci priviamo, tutti contenti, del diritto alla rappresentanza, solo perché non sappiamo votare persone degne.
Ci priviamo del bello che — mi dicono — non si puó definire, anche se, davanti al brutto, raramente ci coglie il dubbio. Ci priviamo del diritto di attribuire il valore alle cose, lasciando che una banda di banditi increvattati lo faccia per noi.
Ci priviamo del tempo per. Ci priviamo della noia. A volte, arriviamo a privarci dell’aria per respirare.
Molti anni fa, in un piccolo cinema di Siviglia, ho visto un bellissimo film cubano. Si chiamava Cosas que olvidé recordar e raccontava con surreale ironia le quotidiane fatiche di una famiglia cubana immigrata negli Stati Uniti. Ecco, certe volte mi sento cosí, prigioniero volontario di un mondo che fatico a comprendere. E tiro avanti meglio che posso, cercando di non dimenticarmi le cose che volevo ricordarmi.