Le cose che sanno fare

Una doverosa premessa. Il ragionamento alla base di questo (insolitamente lungo) Paolone è frutto di una smaccata azione di plagio. Negli ultimi tre anni ho avuto il privilegio di passere molti giovedì pomeriggio in compagnia di una persona straordinaria, la cui sagacia e vivacità intellettuale è superata solo dalla furibonda verve polemica. Queste riflessioni sono solo uno dei molti “pensieri intelligenti” che ho avuto in eredità dalle chiacchiere svoltesi a margine di questi pomeriggi. Va da sé che ogni osservazione troppo superficiale, ogni deduzione incongruente, ogni conclusione sbagliata, è invece farina del mio sacco…

 

Uno: l’erba brusca

In fondo al Naviglio Pavese, ormai quasi al confine del territorio comunale, c’è una vecchia casa di ringhiera, fiduciosamente allineata al ciglio stradale come in attesa di essere raggiunta dalla città, cosa che auspicabilmente non avverrà mai. Al piano terra di questa casa c’è, credo da sempre, un piccolo ristorante (se non fosse un termine abusato, diremmo: un’osteria) che ha di recente cambiato gestione e proprietà. La proprietà è, pare, di un gruppetto di personaggi in vista, tra cui un noto comico, la cui vena surreale ben si concilia con il genius loci. La gestione è invece di un piccolo team, di cui ci ha particolarmente colpito la giovane e cosmopolita (e affascinante) cuoca.

I locali del ristorante, ristrutturati e arredati con un sapiente gioco di rimandi colti e popolari, viaggiando con invidiabile nonchalance sul filo dell’eccesso, tra vecchie cassette di legno, nude lampadine, oggetti di recupero e colori antiminimalisti, sono solo una premessa. La vera sostanza si trova al di là del corpo edilizio, in quello che fu il cortile della casa di ringhiera, dove gli avventori, mediamente non meno raffinati e blasé del locale stesso, mangiano e chiacchierano circondati da un grande, ordinato e curatissimo orto.

Nel piatto, pietanze assai convincenti, molto vegetali ma affatto vegetariane, divertenti e curiose, locali e cosmopolite (se non fosse un termine abusato, diremmo: glocal), antiche e sperimentali ma, soprattutto, buone. E così, lontano dal centro della minimetropoli meneghina, tra marcite e risaie, tra i grilli e le cicale, mangiando erbe dimenticate e bevendo bollicine raffinate, ci si sente un po’ più locali e assai meno provinciali.

Ma, allo stesso modo, vi potrei parlare di una fabbrica di pasta in un borgo sperduto, al margine di una piccola città, in una regione periferica di un piccolo Paese europeo, che reinventa lo spaccio aziendale (con tanto di scaffali anni settanta in formica finto-legno) in un caldo, domestico, raffinato e piacevole ristorante. O di una scuderia in fondo a una valle dove si beve il vino nelle scodelle. Insomma, vi potrei dire di molti luoghi che, al buon cibo, sanno aggiungere una cura, una passione, che va oltre la buona tavola e la buona gestione, verso, verrebbe da dire, la ricerca di un senso, di una ragione.

 

Due: il Paletta

Ci sono alcuni studenti che, lo capisci subito – al primo incontro, sono destinati a rimanere negli annali della didattica. Per esempio, Paletta.

Il primo incontro: “prof, scusi, ma, cioè, noi non possiamo fare la nostra presentazione, cioè, martedì, perché, prof, è che siamo a Amsterdam.”

Il secondo incontro (se vi fossero rimasti dei dubbi): “Cioè, prof, noi, per il progetto, c’avremmo un’idea (oggetto dell’esercizio era un grande edificio in centro a Milano – n.d.a.): cioè, a Amsterdam abbiamo visto una cassettiera… tipo, c’ha presente, con tutti i cassetti che si aprono (mima l’apertura dei cassetti – n.d.a.), cioè, una cosa bellissima.”

Hanno progettato un edificio. Sembrava una cassettiera. Era molto bello. Hanno preso trenta e lode.

Ora il Paletta veleggia sereno verso la laurea, miete successi presso i docenti più intelligenti e ignora serenamente i più modesti. In questi anni siamo rimasti amici e abbiamo spesso lavorato insieme, con grande soddisfazione, almeno mia. Credo che diventerà un grande architetto.

Ogni produzione di Paletta, disegni o video, architettura o magliette, allestimenti o appunti di una lezione, è permeata di questa potenza comunicativa (Paletta, se mi stai leggendo, fai finta di niente e non te la tirare…).

Per esempio, c’è Chantillo, la marca di streetwear che Paletta disegna e produce con alcuni amici: grafiche dirompenti, cura maniacale nella produzione (con scelta di fornitori, materiali, tessuti e tagli) e un immaginario ironico-lisergico che coglie nel segno (e questo sarebbe solo un innocente divertissement).

E ce n’è tanta, di gente, che, a margine della propria vita professionale, fa cose talmente straordinarie che, se non facessero più che bene il loro mestiere, ti verrebbe da dirgli di piantare lì e fare sul serio. C’è chi ha un blog di cucina, con foto meravigliose e ricette prelibate, sviluppano software fondamentali per giocare sui normali computer con i videogames delle sale giochi anni Ottanta, costruiscono chitarre in alluminio, elevano il bricolage a scelta di vita.

 

Tre: il tango delle Orobie

La mia famiglia è legata a doppio filo a una misconosciuta valle bergamasca. A doppio filo perché la famiglia materna ha costruito lì la sua (modesta) fortuna, mentre quella paterna da lì trae le proprie origini. Ragioni più che bastevoli per trascorrere in suddetta valle più vacanze di quanto sarebbe ragionevole.

Perché, in linea di principio, verrebbe da chiedersi che ci fai in una valle che è molto verde, certo, perché piove troppo; una valla dove l’età media dei villeggianti è intorno ai trentacinque anni, essendo tutti o under-cinque o over-sessanta. Una valle dove la diffusa mansione di muratore ha portato alla costruzione di circa otto vani/abitante, generando una simpatica sensazione di sovraffollamento anche quando non c’è nessuno.

Eppure la valle è, a suo modo, bella; e i giovani, almeno alcuni, iniziano a darsi da fare per rimanere. Rinnovano, con tanto di spa, alberghi che rischiavano un destino da ospizi mascherati, attirando una inimmaginabile clientela internazionale; trasformano sperduti ristoranti in gradevoli rifugi per amanti delle passeggiate. Oppure si inventano un festival di musica colta nelle contrade della valle, e dici poco.

Per antiche contrade è il festival che ormai da quattro anni anima l’estate valligiana. Musica barocca con strumenti originali, letture dantesche con accompagnamento dal vivo, jazz, musica sacra, musica popolare e lirica. Quasi cinquanta serate in un’estate. Ogni sera in una contrada diversa, alla scoperta di luoghi meravigliosi di cui gli abitanti stessi alle volte faticano a cogliere il pregio. Da quest’anno c’è perfino la tessera-fedeltà, con sconto nei negozi valligiani proporzionale alle serate seguite.

Il pubblico è quello che la valle offre, potremmo dire vario(pinto). E se la gode, non c’è che dire. L’organizzatore è l’assessore alla cultura di un paese di novecento anime, bibliotecario per lavoro, organista per vocazione, organizzatore infaticabile per passione.

E quanti altri festival, quante kermesse (ma non c’è una parola italiana?) nascono dalle idee spericolate di qualche maniaco e si reggono sulle robuste spalle di centinaia di volenterosi volontari, giovani e appassionati? E non sono forse tutti meravigliosi (i festival, ma forse anche i volontari)?

 

Vi starete forse chiedendo cosa centrino tra loro queste tre storielle. Beh, non sono sicuro di saperlo, ma mi sembra che una relazione ci sia. Forse è la sensazione che, in questo nostro strano momento storico di Occidente colto e decadente, in controtendenza rispetto a un drastico impoverimento qualitativo e culturale della produzione di massa, questi fenomeni siano sempre più frequenti. Situazioni in cui qualcuno è evidentemente sovradotato rispetto alle richieste specifiche che gli vengono poste. Situazioni in cui, svolto in maniera impeccabile il proprio lavoro o la propria mansione, rimangono ancora una quantità straordinaria di competenze e di energie. Discutendo in quei giovedì pomeriggio, si notava come, giunti a questo punto, alcuni decidano di dare libero sfogo a queste doti, in una logica che trascende l’utilità o il mercato, per il piacere, la necessità, forse l’inevitabilità di realizzare un potenziale.

Interpretando con una libertà un po’ corsara il capability approach di Amartya Sen, si può leggere questo comportamento come un’ottima espressione della facoltà di agire teorizzata dal Nobel indiano e quindi, in fin dei conti, come uno straordinario esercizio di libertà.

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