Mio figlio Michele, vispo cinquenne, è un grande raccontatore di barzellette. Le migliori cominciano tutte con una terna più o meno malassortita di personaggi (c’erano un italiano, un francese e un cinese…). La nostra storiella di oggi parla di un architetto, un professore e un calciatore, ma non so mica se fa ridere…
Nelle famiglie piccolo borghesi, moderatamente intellettuali e abbastanza di sinistra come la mia, lo sport era considerato, nella migliore delle ipotesi, un incomprensibile esotismo. Nella peggiore, un autentica perversione. Si poteva fingere il contrario, frequentare svogliatamente un corso di tennis, sciare qualche giorno all’anno, puciare i piedi in qualche clorosa piscina, spingersi fino a qualche partitella scapoli-ammogliati, ma la realtà era questa: un totale disinteresse, che spesso sconfinava nel disprezzo, per ogni attività sportiva, specialmente agonistica.
Si vagheggiava, piuttosto, della necessità di un adeguato esercizio fisico, opportuno se non addirittura fondamentale, reiterando l’abusato e forse – in fondo – frainteso motto di Giovenale. Esercizio che però, si badi bene, nessuno sapeva bene cosa fosse.
Per fortuna, Manuel Vázquez Montalbán non era ancora stato tradotto, Carlin Petrini non aveva ancora fondato le sue associazioni di promozione del cibo lento e il Gambero Rosso era ancora un inserto sporadico del Manifesto. Quindi, a sinistra, si mangiava con un certo senso di colpa e questo limitava i danni della scarsa attività fisica.
Certo, c’era qualche amico, qualche figlio di colleghi, qualche parente lontano o vicino che lo praticavano, questo famoso sport, alcuni anche a un discreto livello. Ma i complimenti e le felicitazioni per i loro successi (mal)celavano la sostanziale disapprovazione per la perdita di tempo, sicuramente sottratto a più edificanti attività, e per l’esibizione di spirito competitivo, così reazionario e – in fondo – inelegante.
Il giudizio malevolo si estendeva, naturalmente, agli sportivi professionisti. Rozzi energumeni che guadagnavano cifre astronomiche calciando palle, brandendo pezzi di legno o dandosela a gambe… davvero disdicevole.
Meglio, molto meglio, studiare e acculturarsi, chini sui libri o a teatro, a scuola o a casa.
Una cara amica, proveniente dal medesimo melieu, ricordava qualche giorno fa, con la coscienza e l’autoironia che sono privilegio delle persone intelligenti e dell’età che avanza, lo scombussolamento familiare seguito alla sua decisione, alla fine del liceo, di frequentare l’ISEF. Non saprei riprendere qui il suo spassoso racconto, ma l’agitazione di quei giorni era ancora vivida perfino nei miei, di ricordi.
A corollario di questa filosofia, c’era il fatto che l’impegno e la devozione alla cultura sarebbero state premiate nella vita. Non tanto con il vil denaro (ah, quanti tabù, nelle famiglie piccolo borghesi, moderatamente intellettuali e abbastanza di sinistra come la mia…), quanto piuttosto con le soddisfazioni di un lavoro interessante, con le gioie di un posto di responsabilità, con l’appagamento di un ruolo nella società.
Temo di dover ammettere che molto spesso non è andata così. Non solo perché sul mondo della cultura, delle professioni liberali, della produzione immateriale (per tacer dell’accademia), la crisi si è abbattuta con particolare violenza. Anche per questo, ma non solo. In realtà, in questa strana epoca, in questo strano paese, in questi mondi in particolare i criteri di valutazione e di scelta seguono percorsi spesso incomprensibili (o fin troppo comprensibili). Non vorrei passare per Rosicone (categoria che, peraltro, vorrei affrontare al più presto sul Paolone), ma davvero è spesso così.
Il paradosso è che, nello sport, questo non succederebbe. Nessun presidente comprerebbe un calciatore brocco. Certo, può capitare di sbagliare, qualche volta, magari regalando il nome al più solido pseudonimo collettivo di tutti i tempi. O si può essere in dubbio se puntare sull’incostante e sorprendente giovane talento o sul solido e collaudato giocatore d’esperienza. Ma la masochistica decisione di investire su uno sportivo di scarso talento, poca applicazione e ancor minori risultati non verrà mai presa da nessuno. Fosse anche il più obbediente, il più fedele, il più parente. Se non è questione di spirito decoubertiano, quantomeno è buon senso economico e imprenditoriale.
Al contrario, nel mondo della cultura, delle professioni liberali, della produzione immateriale (per tacer dell’accademia) la scelta clientelare, familista, discutibilmente cooptativa è spesso la norma.
Ma noi, ormai, siamo fatti così. Sappiamo un sacco di cose di dubbia utilità, leggiamo compulsivamente ogni tipo di volume, giornale, depliant. Sommiamo lauree, dottorati, specializzazioni e certificati, incapaci di smettere di studiare (che ci piaceva così poco, quando eravamo obbligati…).
Nel frattempo abbiamo anche scoperto i piaceri della tavola e ci siam trovati con una bella panza. E cerchiamo di correre ai ripari tornando all’annosa questione dell’esercizio fisico: chi foraggiando palestre in cui non mette mai piede, chi passando le pause pranzo contando vasche e micosi, la maggior parte correndo all’alba per le vie della città lucidi come tacchini in glassa di lycra.
E facciamo strani mestieri come l’architetto, quasi quasi nemmeno ci lasciano fare il professore. E con il leggendario piede a banana che ci ritroviamo, neanche possiamo pentirci di non aver fatto il calciatore.