Quando ero bambino la svizzera si mangiava.
Poi sono arrivati gli hamburger. (Che poi, se proprio bisognava passare dal Paese alla città, perché cambiare nazione? Non potevano chiamarsi bernesi? O ginevrine? Illuminazione improvvisa: che la luganega venga da Lugano?)
Dicevo: più o meno quando le svizzere hanno cambiato nome, ho iniziato a scoprire la Svizzera. All’inizio era più che altro una questione di cioccolato (che mi è sempre piaciuto) e di orologi (come dimenticare il primo pataccone nero con le lancette bianche, regalo dello zio che in Svizzera, allora, ci viveva?).
Più avanti gli interessi si sono diversificati.
Ultimamente, poi, si è aggiunta l’architettura, e le ragioni di attenzione sono aumentate.
Infatti i giorni scorsi ci sono tornato, in Svizzera.
Quando cerchi di raccontarla, la Svizzera, si verifica un fenomeno strano: è come se il fantasma di Monsieur de La Palice si impadronisse immediatamente e inesorabilmente di te. D’improvviso dalla mente sgorgano solo discorsi tautologici e la frase si arrotola in una spirale di luoghi comuni. La Svizzera è ordinata; ah, com’è ordinata. E come è pulita. E i treni sempre in orario? Com’è ricca la Svizzera; si, ma come è cara.
Ultimamente, pare, anche la Svizzera non è più quella di una volta.
Eppure ti rimane la voglia di provare a capirla almeno un po’. In fondo sono i nostri vicini. In fondo è la nazione più grande, dopo l’Italia, delle sei dove la nostra lingua è ufficiale (ebbene si, l’italiano è lingua ufficiale in Italia, Svizzera, Slovenia, Croazia, San Marino e Città del Vaticano; mi sono stupito anch’io… potere di wikipedia!)
La Svizzera, poverina, è come certe compagne di classe. Belle, intelligenti, sempre in prima fila. Ma antipatiche. Inguaribilmente antipatiche. In un certo modo le invidi, ma non vorresti averci davvero a che fare.
Però certe volte la guardi e pensi: va che è proprio bella. Forse non è poi così antipatica. E poi noi mica ci soffermiamo su questi dettagli irrilevanti…
Un tizio che conoscevo aveva un piano. Organizzare un piccolo esercito, anche raccogliticcio: guardie ecologiche, ausiliari della sosta, finanzieri in pensione, cose così. Male armati ma baldanzosi attaccare il neutrale vicino con lo scopo dichiarato di conquistare Lugano. Di fronte all’inattese potenza della macchina bellica elvetica, arretrare atterriti fino al Po, dichiarandosi, quindi, vinti. A questo punto, la Svizzera, suo malgrado, ci avrebbe conquistato.
Io, francamente, non è che ci tenga a diventare svizzero.
Farei anche a meno, se si può, di quel sottofondo un po’ xenofobo, dell’arroganza del più forte e di alcuni altri aspetti mica tanto piacevoli.
Certe volte, però, mi capita di pensare che un po’ di Svizzera non ci farebbe male.
L’educazione civica e il rispetto per la cosa comune. I fiori che li raccogli da solo e lasci la monetina in un secchiello. Gli asili nella foresta e le università sul lago. L’1% del costo di costruzione degli edifici da spendere in arte. Le biciclette dappertutto, anche se c’è da salire e scendere come dei matti. I treni. Le poste. Lo strano orgoglio della nazione federale. E il cemento armato a vista liscio come velluto, che un getto così, qui, non me lo faranno mai.