Originariamente pubblicato su Il Calibro.
Proprio quello che avevo bisogno! esclamava, sinceramente stupita, mia nonna quando, spacchettando il regalo ricevuto, trovava ciò che ti aveva chiesto di regalarle: la sua generazione, nata in un mondo ancora contadino e passata attraverso due guerre, era intrisa di un morigeratezza che oggi faremmo fatica a praticare. La società consumistica che è seguita e in cui siamo cresciuti (e che quelli come lei faticavano tanto a comprendere) ci ha quasi fatto dimenticare cosa fosse il bisogno: ancora oggi, nel mezzo di una crisi epocale che sta rimettendo in discussione gli stili di vita di molti di noi, non è così semplice fare un regalo utile.
Ho compiuto gli anni il mese scorso e, quando ho aperto il regalo di mia moglie, ho esclamato: proprio quello che avevo bisogno! Nel pacchetto non c’erano sofisticati devices elettronici né fazzoletti con il monogramma. C’era solo un piccolo quadernetto con alcune scritte. Si trattava di una intuizione semplice e geniale, arrivata, diversamente da quando noi facevamo i regali a mia nonna, senza aiuto da parte mia: mia moglie mi ha regalato del tempo. Ha svolto commissioni che rinviavo da settimane, aggiustato cose che giacevano abbandonate da mesi, prenotato visite, organizzato serate.
La parte più bella del regalo è che mi ha fissato una serie di lezioni di pianoforte, ed è anche riuscita a scovare un posticino nella mia agenda dove piazzarle. La maestra si chiama Giuliana e ha l’aria senza tempo, ferma e gentile, dell’istitutrice di un racconto ottocentesco. Con pazienza, mi sta aiutando a ritrovare la strada tra tasti e note, passione giovanile troppo a lungo abbandonata.
In realtà in questi anni ho continuato a suonare — passatempo sporadico e solitario — quello che ricordavo del mio esile repertorio classico o estenuanti improvissazioni su semplici accordi blues. Quindi le dita rispondono ancora, almeno un po’. Ma ho completamente disimparato a leggere gli spartiti. Mi ritrovo quindi musicista analfabeta-di-ritorno e mi tocca solfeggiare, il polpastrello che segue incerto il pentagramma, con la snervante lentezza di un bimbo che impara a leggere. Ma la signora Giuliana, fedele nella sostanza alla sua immagine esteriore, mi incoraggia con un sorriso gentile sulle labbra, senza abbuonarmi nemmeno una battuta.
Un’ora con il telefonino spento, il computer chiuso, il silenzio della casa nelle ore insolite. Solo il suono incerto della mia voce o del pianoforte. Alla fine della lezione sono stremato: con ogni evidenza ho perso l’abitudine alla concentrazione.
Probabilmente la vita schizofrenica che faccio ormai da un po’ di anni (ora mi tocca persino una campagna elettorale… a proposito: vota dodicimila!) mi ha reso prigioniero della mia supposta abilità a fare molte cose allo stesso tempo. Non fraintendetemi, sono sempre stato un sostenitore del multitasking: faccio molte cose assieme e in generale funziona, i diversi interessi si alimentano reciprocamente, l’inevitabile cortocircuito è più spesso seminale che non dannoso. Però ogni pratica ha i suoi vantaggi e i suoi svantaggi e forse anche in questa frenesia che, ci piaccia o meno, ci appartiene, occorre ancora sapersi ritagliare uno spazio di concentrata dedizione.
Alla fine di ogni lezione accompagno la signora Giuliana alla porta e, dopo averla richiusa dietro al suo passaggio, rimango fermo alcuni secondi, in silenzio, e penso: proprio quello che avevo bisogno!