Quale forma di città è lecito aspettarsi dalla trasformazione degli Scali milanesi? Quale sarà dunque la Milano di domani che su questi suoli abbandonati andrà prendendo forma? Secondo quali criteri e perseguendo quali obiettivi possiamo definire un principio di qualità per la città che verrà?
Come ormai da tempo noto e ampiamente analizzato, nella città europea alla sua attuale fase di sviluppo, la maggior parte delle trasformazioni urbane riguardano la conversione di aree dismesse interne alla città (Dragotto e India, 2007). Questo fenomeno si è andato ulteriormente consolidando negli ultimi anni, sostenuto da due nuovi trend: da un lato il diffondersi di politiche sempre più decise di contenimento del consumo di suolo (Arcidiacono et al., 2017) ha portato, dopo un lungo periodo di crescita incontrollata, a imporre vincoli all’espansione delle città e dall’altro una sensibile inversione di tendenza rispetto all’emorragia di abitanti delle parti centrali e più dense delle aree urbane, caratteristica degli anni Settanta e Ottanta del Novecento, è tornata a sostenere la domanda di alloggi e di altre funzioni urbane (Glaeser 2012).
Più in generale, oggi le città stanno tornando protagoniste. Molti dei punti deboli che ne avevano caratterizzato la crisi (inquinamento, insicurezza, congestione, difficoltà di governo) sono stati identificati e stanno venendo affrontasti, con esiti non sempre risolutivi ma spesso promettenti. Al contempo, il prezzo economico e sociale della dispersione territoriale si è imposto all’attenzione non solo degli studiosi ma anche degli abitanti, resi dalla crisi più attenti all’ottimizzazione dei propri costi e dei propri sforzi. Nel complesso, il vivere urbano è dunque nuovamente attrattivo e questo cambio di paradigma porta con sé conseguenze rilevanti.
Gli oltre un milione di metri quadri delle aree ferroviarie abbandonate o sottoutilizzate degli Scali milanesi sono dunque oggi parte della nuova frontiera di rigenerazione delle aree dismesse e molte questioni si pongono al momento di trasformare così importanti parti di città.
Una prima serie di questioni riguarda la scala di relazione e la natura di queste aree e, conseguentemente, degli interventi che le trasformeranno.
All’interno del più ampio percorso di conversione delle aree dismesse, le maggiori occasioni che si prospettano per le città nei prossimi anni assumono infatti un nuovo carattere: il fenomeno in corso non riguarda più, se non marginalmente, la trasformazione di aree liberate dalla rilocalizzaizone delle attività produttive (fenomeno di fatto già sostanzialmente concluso alla fine del secolo scorso), quanto piuttosto la rifunzionalizzazione di aree fino ad ora dedicate a infrastrutture urbane la cui necessità è oggi ridotta o mutata: aree ferroviarie e portuali, poli logistici, aree dedicate alla produzione e trasformazione di energia, aree militari e caserme. La distinzione, che potrebbe apparire di dettaglio, ha però importanti ricadute sul valore strategico e simbolico di queste operazioni.
In ragione, infatti, della loro origine infrastratturale, queste aree sono spesso connesse tra loro e con il territorio circostante a scale anche molto diverse, concatenate in sistemi spaziali e funzionali vasti e complessi. La loro localizzazione e la loro forma trascende quasi sempre tanto le regole che hanno costruito il tessuto urbano quanto la trama delle strutture territoriali: esse rispondono a logiche di vasta scala che ne determinavano le caratteristiche su base funzionale e tecnica. Si tratta quindi quasi sempre di occasioni eccezionali e straordinarie per le città, sia dal punto di vista quantitativo – in ragione della notevole grandezza delle aree interessate, che da quello qualitativo – per la rilevanza delle aree dal punto di vista morfologico, localizzativo e strategico. In questo senso pianificazione, progettazione e realizzazione dovranno saper coniugare l’inevitabile eccezionalità e autonomia di questa trasformazioni con la messa a sistema con i territori metropolitani in cui sono collocate.
Una ulteriore questione, sempre legata all’origine sopra descritta di queste aree, riguarda la tradizione di servizio rispetto alla cittàche questi luoghi hanno, tradizione che porta ad accendere aspettative molto pronunciate nei cittadini rispetto alla loro capacità, se trasformate, di giocare un ruolo positivo nel miglioramento della qualità della vita delle città. Più verde, più servizi, più spazio pubblico, più case a prezzi accessibili, più posti di lavoro: le speranze degli abitanti, siano esse più o meno razionali e più o meno realizzabili, proiettano sui queste trasformazioni – e sugli operatori che le attueranno – una grande responsabilità.
In queste aree, spesso di origine demaniale, il confine tradizionale tra pubblico e privato si sfuma e perde di rilevanza, rispetto a categorie più appropriate come strategico o di interesse pubblico. Una particolare attenzione, in questo senso, andrà posta sulla procedura di definizione dei progetti di trasformazione. L’esperienza europea ha già da tempo evidenziato il vantaggio a questi fini delle procedure concorsuali nelle loro varie forme: il concorso di progettazione è ragionevolmente lo strumento migliore per definire il futuro di queste aree, indipendentemente dagli obblighi di legge e dalla proprietà delle aree stesse.
Una seconda famiglia di questioni riguarda il rapporto di queste aree, a una scala più di prossimità, con il tessuto urbano che le circonda e finanche con la loro vera e propria consistenza edilizia.
La scelta, per esempio, di operare in termini di ricucitura, in continuità morfologica con l’intorno urbano esistente, o di nuova fondazione, con un disegno urbano che denoti una propria autonomia formale, esprime due diversi approcci nel modo di fare città e di rapportarsi con i contesti, approcci che sarebbe auspicabile fossero declinati tanto in ragione delle specifiche caratteristiche di ciascuna area e del suo contesto di riferimento, quanto delle scelte strategiche, quanto delle diverse modalità attuative. Non è possibile infatti individuare un valore in sé né nella ricucitura come occasione per propagare i criteri della città esistente anche all’interno delle aree di trasformazione né nell’opportunità per proporne di nuovi: per quanto radicalmente differenti, entrambe le scelte possono condurre ad una città mista, attrattiva, vivace, evitando nel primo caso la pedissequa ripetizione del tessuto esistente comprensivo dei suoi difetti e delle sue obsolescenze e nel secondo la creazione di un’enclave del tutto autonoma, di una roccaforte socialmente omogenea, di per sé esclusiva e anti-urbana (Shane, 2000).
Altra questione riguarda l’eredità di manufatti e di paesaggi che queste aree ci consegnano. La scelta di collocare ciascun progetto di trasformazione nello spettro che divide la conservazione in senso stretto dalla tabula rasa, andrà di volta in volta presa in ragione da un lato della natura di questa eredità e del giudizio di valore (o, meglio, di potenziale) che attraverso il progetto sapremo darne e dall’altro della compatibilità con essa del programma di funzioni e usi che quelle diverse aree verrà proiettato. Sarà dunque compito del progetto individuare un punto di equilibrio e comprendere, rispettando di caso in caso gli obiettivi preposti, il grado di radicalità più opportuno a cui attestarsi in fase operativa, nell’ambizione di far coesistere scale ed epoche diverse e restituire attraverso la stratificazione un elevato valore identitario tra memoria e innovazione.
Un terzo e ultimo insieme di questioni che mi sembra utile richiamare riguarda la dimensione più strategica e simbolica della trasformazione, in particolare in relazione con il tema dell’abitare e dell’urbanità.
La creazione di così ampie parti di città ha necessità di poggiare su un condiviso immaginario urbano, immaginario oggi fortemente indebolito da un ideale di vita suburbano (o anti-urbano) impostosi a partire dalla fine degli anni Settanta — in aperto contrasto con le nostre tradizioni e con i nostri valori, con la storia del nostro territorio e delle nostre città— ideale fondato sull’isolamento, sull’individualità, su una distorta idea di privacy, su un principio esagerato di comfort. Nel contesto della nuova centralità delle città evidenziata sopra, occorre oggi tornare ad alimentare un immaginario urbano nuovo e capace di ospitare le nuove pratiche e le nuove popolazioni urbane e al contempo radicato nella nostra storia.
Una particolare delicatezza in questo senso riguarda la componente residenziale di queste trasformazioni e il suo carattere specifico, al di là di affermazioni (e proclami) primariamente quantitativi sulla sua natura più o meno sociale. Il nostro paese si è fondato, almeno dal dopoguerra, sulla casa come bene di proprietà e accumulazione, come veicolo per conservare il benessere e tramandarlo nelle generazioni. Il suo ruolo di luogo dove abitare diventava spesso un aspetto accessorio rispetto a quello di bene di investimento (se non di speculazione). Oggi si parla spesso di incrementare la componente in affitto dell’offerta residenziale delle città, o addirittura della casa come servizio. Il tema è molto interessante, seppur non privo di criticità. In generale pare ragionevole agire affinché la residenza che scaturirà da queste operazioni vada ad ampliare l’offerta presente in città, incrementandone la capacità di accogliere le diverse fasce di popolazione e anche le differenti temporalità del risiedere.
In conclusione, come evidenziato dai casi studio raccolti in questo volume — tanto quelli specificamente presentati alla giornata di convegno dedicata alla qualità urbanaquanto gli altri qui raccolti, comunque molto interessanti dal punto di vista proposto — e come sottolineato con accenti anche diversi e contrastanti dai discussant che hanno partecipato al dibattito e che sono ospitati nella parte finale di questo libro, le strategie necessarie per perseguire una città abitabile e di qualità sono molte e complesse, articolate e multifattoriali. Devono infatti tenere insieme aspetti spaziali e insediativi, morfologici e paesaggistici, funzionali e simbolici. Per procedere in questa direzione è imprescindibile accettare la sfida di una governance articolata ed efficace, della valutazione quantitativa e del monitoraggio dei risultati, della riconoscibilità dei progetti e della loro capacità di costruire un immaginario condiviso, della flessibilità temporale e della gestione delle sfide complesse. Soprattutto, i progetti necessiteranno di un radicalmente nella natura della città e nell’immaginario che la accompagna e, allo stesso tempo, della capacitò di accogliere nuove forme e nuove pratiche.
D’altro canto, come e più ancora che per ogni altra trasformazione urbana, la qualità, caratteristica tanto indefinibile quando la si persegue quanto evidente nella sua assenza, dovrà essere al centro dell’azione di governo e nella progettazione e produzione di queste aree così cruciali.
È quindi auspicabile e doveroso che questo ulteriore insieme di trasformazioni urbane sia condotto da tutti gli attori coinvolti – pubblici e privati, grandi e piccoli, locali, nazionali e internazionali – con grande responsabilità, perseguendo non solo la correttezza formale e procedurale e (come è legittimo) la sostenibilità economica, ma anche la qualità degli interventi e l’appropriatezza degli assetti quantitativi e morfologici, la rispondenza alle necessità di riequilibrio dei territori e le aspettative delle popolazioni, rispettando e potenziando la specifica natura delle città europee e italiane, la loro profonda e ancora solida urbanità.
Originariamente pubblicato in: Laura Montedoro (a cura di), Le grandi trasformazioni urbane. Una ricerca e un dibattito per gli scali milanesi, Fondazione OAMI, Milano.
Bibliografia
AA.VV., 1999. Towards an urban renaissance. London: Department of the Environment, Transport and the Regions.
Alcozer F., Gabrielli S., Gastaldi F., 2004.+ città. Firenze: Alinea.
Arcidiacono A. Et al (a cura di), 2017. Rapporto 2017 Consumo di suolo. La dimensione europea del consumo di suolo e le politiche nazionali, Roma: INU.
Dragotto M., India G. (a cura di), 2007. La città da rottamare. Dal dismesso al dismettibile nella città del dopoguerra. Venezia: Cicero Editore.
Glaeser E. L., 2012. Triumph of the city: how our greatest invention makes us richer, smarter, greener, healthier and happier. London: Pan. (trad. it. 2013, Il trionfo della città: come la nostra più grande invenzione ci rende più ricchi e felici, Milano: Bompiani).
Shane D. G., 2000. Urbanism: urban design and heterotopias. In: Heterotopolis., 2000, Washington, DC: Association of Collegiate Schools of Architecture.