Quello che segue è un post insopportabilmente radical-chic, pieno di buoni sentimenti, amore per la cultura e fiducia nel prossimo e nel futuro. Quindi se siete complottisti sfegatati, cercatori di scie chimiche, nemici dei congiuntivi e amanti dei punti esclamativi, è bene che non proseguiate (in effetti, ci sarebbe da chiedersi che cosa ci facciate qua, ma – si sa – le vie dell’Internèt sono infinite). Proseguire è altrettanto sconsigliato a cinici, brontoloni, pessimisti, catastrofisti e a tutti quelli che “ah, i giovani d’oggi!”. Per tutti gli altri, buona lettura e grazie di onorare il Paolone con la vostra visita!
Succede che ieri sera siamo andati a teatro, una cosa che mi piace tantissimo e ogni volta mi chiedo perché non lo faccia più spesso. Siamo andati a teatro ed è stata una serata bellissima.
In verità, a un primo sguardo, la scena che si è presentata ai nostri occhi aveva un che di apocalittico. Tutto in torno a noi, nei posti accanto, in quelli dietro e in quelli davanti, si sono d’improvviso seduti i componenti di un’ampia scolaresca.
Immaginatevi voi la nostra malcelata reazione all’idea di seguire uno spettacolo accerchiati da sedicenni in ribollimento ormonale, preoccupati della posizione in sala del/della ambita preda amorosa e dell’abilità del compagno di posto in non so bene quale gioco elettronico.
I Baldi giovani erano guidati da un’impavida corpulenta professoressa, dai capelli di quell’indefinibile colore che una velenosa amica chiamava “rosso menopausa”, che con un fintantamente ingenuo sorriso li invitava a prendere posto e a comportarsi bene. Le dita dei suddetti correvano a velocità non misurabili sugli schermi dei loro smartphone, dai capelli colava un misto di pioggia (già, dimenticavo: per arrivare ci siamo anche bagnati ben bene) e indefinibili sostanze chimiche da coiffeur, mentre dai jeans strappati ad arte sbucavano strane calze a cuoricini e sani rotolini di ciccia di un infanzia finita da pochissimo.
Tale improbabile compagine si approntava a seguire 130 minuti di piece marxista degli anni quaranta. Voi potete capire che le speranze che si immolassero stoicamente, senza disturbare i vicini (cioè noi), erano davvero poche.
E invece poi succede che il buon vecchio Bertold, quando – esule in Finlandia – si è dedicato a scrivere di questo tale Signor Puntila, avesse deciso di dar fondo alla sua sopraffina verve ironica. E succede anche che il De Capitani e i suoi, in questo noto allestimento che io, però, non avevo mai visto, avessero orchestrato una messa in scena da vera Commedia dell’arte (come del resto lo stesso Brecht si raccomandava nelle sue Note), piena di sberleffi, ammiccamenti, doppi sensi e improvvisa poesia.
Insomma, come in un film progressista hollywoodiano prodotto da un anziano e un po’ senile Robert Redford, la polvere del palcoscenico sollevata dal concitato sgambettate degli energici attori è calata su tutti noi, teen-ager inclusi, stregandoci e costringendoci a seguire con dedizione il dipanarsi della vicenda, ridendo di gusto e commuovendoci senza pudore in balia del testo, dei suoi interpreti e della musica suonata dal vivo, rendendo sopportabili e naturali (quasi necessari) perfino i pippozzi militanti che Brecht (come molti altri, in quegli anni) era uso incastonare qua e là.
Alla fine, dopo tanti convinti applausi, gli scolari sono tornati alla loro fisiologica adolescemenza e noi alle nostre quotidiane preoccupazioni, ma forse, con un po’ di fortuna, un poco di quella polvere ci si è impigliata nei capelli o depositata nelle tasche e salterà fuori quando meno ce l’aspetteremo.
Un monumento, andrebbe fatto, a tutte le professoresse – quale che sia il colore dei loro capelli – che con sprezzo del pericolo e generosa fiducia nel potere della bellezza portano le nuove generazioni a teatro, in una piovosa sera d’inverno.