Questo breve testo è la prefazione al bel volume Cohousing l’arte di vivere insieme. Princìpi, esperienze e numeri dell’abitare collaborativo di Liat Rogel, Marta Corubolo, Chiara Gambarana e Elisa Omegna, uscito per Altreconomia nel maggio 2018.
All’inizio degli anni Duemila, poco dopo la laurea, con alcuni amici, cercammo per un po’ di tempo un edificio da ristrutturare per abitare insieme, con l’idea di perimetrare spazi ridotti per la vita privata di ciascun nucleo familiare e di utilizzare il surplus di spazio che si sarebbe in questo modo creato per coltivare insieme necessità e passioni. Illetterati in temi di abitare condiviso, chiamavamo questo progetto fantasmagorico “la Casona”. La ricerca fu lunga e frustrante e il gruppo andò assottigliandosi, fino a sparire completamente. Insomma: alla fine non se ne fece nulla. Oggi tutti noi, per fortuna ancora amici, abitiamo in normalissime case urbane, più o meno piccolo-borghesi.
Molto tempo dopo, scoprii che, se ce l’avessimo fatta, avremmo avuto il privilegio di inventare l’acqua calda. Scoprii, insomma, che quello che volevamo fare era pratica comune da diverse decadi, forse non in Italia ma certo in molti paesi europei e non solo.
Scoprii che questo modo di abitare era stato oggetto di studi, anche molto accurati e convincenti. Personalmente, per esempio, sono molto affezionato al piccolo paragrafo su “la casa estesa” contenuto in Quotidiano Sostenibile di Ezio Manzini e François Jégou e ancora oggi preferisco questa definizione ad altre meno precise e meno precisamente perimetrate.
Scoprii che c’erano esempi a Vienna, a Zurigo e in molte altre città che portavano l’abitare collaborativo a esprimere una valenza urbana straordinaria, e ne approfittai per andare a vedermeli tutti.
Scoprii che alcuni colleghi non solo facevano ricerca su questi temi, ma che anche li insegnavano. Ho poi avuto la fortuna di condividere per diversi anni con alcune di queste persone un master in Housing sociale e collaborativo al Politecnico di Milano, imparando da loro probabilmente più di quanto gli studenti possano aver imparato da me.
Alcuni (meglio: alcune, e la questione di genere meriterebbe tutta una trattazione parallela, nel mondo dell’abitare collaborativo) di questi colleghi, hanno anche fondato un’associazione (di cui sono stato – forse sono ancora – socio) che ha l’obiettivo di diffondere le buone pratiche, la condivisione delle competenze e la sperimentazione partecipativa nell’ambito dell’abitare sociale e collaborativo. Con questa associazione hanno fatto molte cose interessanti, tra cui un’accurata mappatura del fenomeno dell’abitare collaborativo nel nostro paese, mappatura che è alla base di questo testo.
Insomma, oggi ho capito molte cose sull’abitare collaborativo — anche se continuo ad occuparmi di progetto architettonico e urbano e quindi di questi temi sono un cultore amatoriale – e, invitato inspiegabilmente a scrivere queste poche righe a supporto di questo testo, proverò a dirvene alcune.
Prima di tutto credo ci siano molte ragioni che dovrebbero portarci a considerare l’abitare collaborativo come risorsa positiva e di interesse generale per le nostre città e per i nostri territori, meritevole di studio e di impegno e finanche di politiche che lo sostengano.
Un edificio collaborativo può essere una soluzione efficace alle necessità e ai bisogni di chi lo abita, ma può anche essere alimento straordinario per ciò che lo circonda. Una comunità che condivide spazi e servizi è un campo aperto dove coltivare convivenza. Un processo che richiede partecipazione attiva e continua è, inevitabilmente, una palestra di cittadinanza. Un servizio collaborativo (auto)gestito all’interno di uno di questi edifici può essere un ottimo complemento al sistema del welfare di un luogo.
In sintesi, io credo che le comunità collaborative e le architetture che le ospitano siano preziosi incubatori di urbanità.
Per noi progettisti, poi, c’è un fattore un po’ laterale ma determinante: progettare un edificio capace di ospitare una comunità collaborativa è assai più divertente che progettare un normale condominio urbano.
Certo, affrontando con serietà e onestà intellettuale il tema dell’abitare collaborativo si aprono anche molte questioni critiche. La barriera economica di accesso a forme di abitare condiviso rischia di limitare gli aspiranti co-housers a fasce di popolazione forse non particolarmente abbienti, ma certo non popolari. Le comunità elettive che con perseveranza perseguono un obiettivo così complesso e difficile rischiano di consolidarsi fino a forme di esclusività ed elitismo che contraddicono, nei fatti, le aspirazioni iniziali. L’innesto di pratiche collaborative in gruppi di persone non particolarmente indirizzate e vocate può, al contrario, produrre un effetto di rigetto e risultati controproducenti. L’enfasi sull’aspetto comunitario può mal conciliarsi con l’esigenza di mobilità nel tempo e con necessità più spiccate di libertà e differenza.
Eppure ciascuna di queste criticità può essere agevolmente affrontata e risolta, anche e soprattutto se supportati da una metodologia solida ed efficace, fondata su uno studio accorto delle diverse forme, delle dinamiche, delle motivazioni e dei casi più riusciti. Uno studio come quello che Housing Lab conduce con serietà ormai da anni, uno studio come quello presente in questo testo.
Oggi, dunque, non vivo in una grande “Casona” con spazi condivisi e servizi collaborativi, ma grazie anche a HousingLab e a lavori come questo, il mio modo di vedere, di praticare e di insegnare il progetto di residenza è cambiato irreversibilmente. Forse, tutto sommato, anche quello di abitare.