Due biciclette rubate in dieci giorni: qualche centinaio di euro. Le relative catene: ancora qualche decina. Le birre per farmi passare l’incazzatura: me le ha offerte mia suocera (!). Arrivare a casa vivi dopo una corsa a scavezzacollo sotto un acquazzone, con un Macaco nelle orecchie, a cavallo di una Doniselli anni ottanta con i freni rotti, rischiando la vita a ogni incrocio: non ha prezzo.
Adoro questa città.
Ricominciamo dall’inizio. Qualche giorno fa, verso la metà del pomeriggio, mi metto in sella all’ultima delle mie biciclette, raccattata nel fondo di un box dopo che mi hanno rubato la mia amatissima Scout (compagna di tanti chilometri) e l’indegna sostituta (acquistata pochi giorni dopo). Mi metto in sella, dicevamo, un po’ contro voglia, per andare a un convegno sulle politiche urbane che vedeva a confronto tre assessori di tre grandi città. Un po’ contro voglia, devo confessare, perché in questo periodo ho troppi pensieri e anche perché avevo sottovalutato il potenziale di interesse della discussione. Lo avevo sottovalutato perché troppo spesso i politici, anche quelli bravi, non riescono a resistere al fare comizi e risultano refrattari al dialogo e alla discussione.
Beh, non questa volta. Sarà stata l’introduzione precisa del moderatore, sarà stato la presenza, invero un po’ tardiva, del barefoot philosopher (potrei inventarmi un detto: chi ha i piedi freschi, ha i pensieri freschi) e i suoi ragionamenti ammalianti e convincenti, sarà stata l’ora presta e il clima cordiale e disteso, fatto sta che sono emersi pochi editti e tante questioni. Poi uno, ai convegni, tende a notare le cose che più lo interessano. E siccome voi già sapete che io sono un maniaco dell’urbanità, potrete facilmente immaginare come le mie orecchie abbiano accolto più che altro i ragionamenti sullo stare in città.
Sono state dette, ve lo garantisco, parecchie cose interessanti. Alcune me le sono appuntate (e le ho anche twittate…).
Mi ha molto colpito la sofferta e onesta riflessione di tutte (già, dimenticavo, si trattava di tre assessori donna) sulla difficile questione della partecipazione: sulla necessità di ascoltare anche chi non ha voce, e di come sia facile ritrovarsi ostaggio dei pochi che di voce ne hanno molta.
Poi mi ha colpito la lucida coscienza nell’individuare nello spazio urbano il luogo del conflitto inevitabile. Ma non il luogo che lo genera quanto, piuttosto, l’unico luogo dove è possibile affrontarlo.
Molto mi è piaciuto il ragionamento dell’assessore milanese sulle regole necessarie al civile convivere; mi è piaciuto ancora di più alla luce dell’invito del filosofo a essere (ordinatamente) libertari rispetto a ciò che può permettere la felicità delle persone, anche quando non condividiamo (non posso non segnalarvi, a questo proposito, un meraviglioso cartello posto agli ingressi di un parco di Copenhagen).
Forse vi sembreranno questioni ovvie, ma forse non lo sono. Per me, quantomeno, è stato assai rassicurante sentire persone che davvero hanno l’onere e l’onore di decidere per (e con) noi delle sorti della città, porsi con chiarezza e pragmatismo queste e altre domande cruciali.
La questione, però, che più mi ha colpito, l’ha posta con sorprendente chiarezza una delle assessoresse (questa roba del genere nelle parole mi sembra francamente irrisolvibile…): siamo ancora capaci di abitare la città? Siamo pronti all’infinita sorpresa dello spazio pubblico? Ma soprattutto: siamo pronti a correre i rischi che questo comporta?
Poi mi sono fermato a chiacchierare un poco nella meravigliosa cornice della Galleria. Forse un po’ troppo, considerato che dense nuvole grigie si stavano ammassando sul cielo del centro di Milano. E così mi sono ritrovato a percorrere a gran velocità, sotto un potente acquazzone, le vie della città. Poco prima di un incrocio, i freni della bicicletta di recupero mi hanno abbandonato. Per fortuna, dall’altra parte, non arrivava nessuno e così son qui a scrivere il mio Paolone e a riflettere sul nostro rapporto con il rischio.
E allora mi sono chiesto, insieme all’assessore: siamo pronti ad amare l’infinita sorpresa dello spazio pubblico? Quali rischi siamo ancora capaci di sopportare? Sappiamo inforcare la bicicletta alla mattina, anche se potremmo trovarci alla sera sotto a un temporale? Abbiamo voglia di ascoltare, anche se quello che sentiremo potrebbe non piacerci? Sappiamo pretendere che vinca il migliore, anche se non siamo sicuri di essere noi? Possiamo ancora amare, anche se in ogni momento potremmo perdere tutto? Abbiamo il coraggio di fare figli, anche se domani potrebbero metterci di fronte ai nostri limiti? Insomma, forse con un po’ di prosopopea di troppo: ci meritiamo ancora la città? e la vita?
Il tutto, avvenne mentre ascoltavo: Bucket Cue – Frank London, Yiddish Folk Song – Moni Ovadia, OK – Les Têtes Raides, Accordeon Pour Les Cons – Les Ogres de Barback, Pachad – Yael Naim, Yesterday’s Mistakes – Oi Va Voi, Roka – Calexico, Somos Viento – Amparanoia, Moskva – Vladimir Vysotsky, Neveryoung – Gogol Bordello, Lo Mato – Peret + Estopa, Grande la media noche – Roy Paci & Aretuska.