Da qualche anno, qui tra Torino e Milano, il rientro dalle vacanze è allietato da MITO SettembreMusica. Si tratta di un festival di musiche (musica forte, direbbe Quirino Principe, ma anche Jazz e molto altro) che, credo anche grazie a finanziamenti pubblici, propone un ricco ed economico cartellone. I primi anni ho fatto un po’ fatica a trovare i biglietti, poi però mi sono organizzato e quest’anno, al massimo dell’efficienza, li ho comperati su internet il rimo giorno di prevendita.
Una messe di biglietti per gli spettacoli più strampalati, che ho poi condiviso con parenti e amici più o meno ignari. Ho portato i miei genitori a vedere un’immarcescibile Ornella Vanoni con lo spassoso Peppe Servillo e i bravissimi Federico Odling, Natalio Mangalavite e Emanuele Smimmo davanti alle splendide scenografie proiettate da Giuseppe Ragazzini. Ho portato un vecchio amico che, inspiegabilmente, si fida ancora, al concerto di Boulez (e comunque vedere, dalla prima fila, la bellissima Barbara Hannigan contorcersi, urlare e sussurrare non è stato poi così male). Ho portato la Luisa e altri amici con figli a vedere una bellissima fiaba di Musikanten. E poi la famigliola senza di me è andata a vedere altri spettacoli ancora.
Insomma, un discreto spasso. Ma ogni anno c’è qualcosa di speciale, di straordinario, che va oltre le tue aspettative. Qualcosa che ti ricorderai per un po’. Quest’anno, senza dubbio, l’incredibile concerto che ho visto allo Smeraldo. Suonava un sacco di gente: John Scofield (con Nigel Hall, Andy Hess, Terrence Higgins), Stefano Bollani e Enrico Rava, (con Gianluca Petrella, Giovanni Guidi, Gabriele Evangelista, Fabrizio Sferra). Quasi tre ore di concerto per 20€ di biglietto, un rapporto qualità prezzo da Granpremio Altroconsumo.
Tanti pensieri ti vengono guardando un concerto così. Pensieri sulla musica, sul futuro, su te stesso. Roba impegnativa. In questo caso, però, mi piacerebbe condividere con voi alcune osservazioni un po’ laterali, quasi metodologiche.
Per esempio. Quando vai a un concerto così speri sempre con non sia una semplice giustapposizione di mini-concerti incastrati a mazzate in una serata sola. Speri che i musicisti, mossi dal rispetto reciproco, ti regalino momenti di ispirata jam session. Ma non succede mai. O quasi: improvvisamente ti accorgi che sul palco allestito per Rava e la sua Tribe è rimasto il Vox di Scofield… che se lo siano dimenticato? E invece ecco che, sul finale, l’inquieto chitarrista dell’Ohio torna sul palco e si mette a suonare con la giovanissima Tribe raviana. Ma la cosa incredibile, almeno per me, non è che Scofield si presti a qualche lirico assolo sull’accompagnamento dei suonatori estasiati; e nemmeno che riesca a improvvisare uno struggente duetto con la tromba di Rava, come se si conoscessero da trent’anni. No. La cosa incredibile è che, mentre il ragazzetti della Tribe facevano i loro assoli, Scofield accompagnava. Accompagnava seguendo gli accordi con gli occhi fissi sullo spartito, accompagnava schitarrando con lo sguardo attento della terza chitarra nell’orchestrina della Scuola Media, mancava solo la lingua fuori nell’angolo della bocca che caratterizza per molti il massimo impegno. L’umiltà dei grandi è sempre un insegnamento, incredibilmente frequente nel Jazz di qualità.
Oppure si potrebbe parlare del rapporto tra generazioni. Rava come Scofield sono, ciascuno a modo suo, un punto di riferimento della scena jazzistica internazionale: fatte le debite proporzioni tra il mondo del jazz e altre realtà, potremmo chiamarli divi. Eppure entrambi, ormai da anni, formano a cadenze regolari nuovi gruppi con giovanissimi colleghi: alimentano in questo modo la propria creatività (e forse anche il proprio ego) e, contemporaneamente, danno straordinarie occasioni a giovani talenti in crescita. Avrebbe potuto Miles Davis cavalcare l’onda per cinquant’anni senza Horace Silver, Red Garland, Bill Evans, Wynton Kelly, Herbie Hancock, Joe Zawinul, Keith Jarrett, Chick Corea, Lee Konitz, Sonny Rollins, John Coltrane, Cannonball Adderley, Hank Mobley, George Coleman, Wayne Shorter, Dave Liebman, John McLaughlin, Pete Cosey, Mike Stern, John Scofield, Oscar Pettiford, Paul Chambers, Ron Carter, Dave Holland, Michael Henderson, Art Blakey, Kenny Clarke, Philly Joe Jones, Jimmy Cobb, Tony Williams, Lenny White, Jack DeJohnette e Al Foster? (che meraviglia, il delirio della lista del jazzofilo wannabie nell’era di internet). Insomma, mica male come sistema.
Poi. La faccia del giovane pianista della Tribe di Rava quando il trombettista, a mezzanotte meno venti, fa segno che il pezzo in corso sarà l’ultimo. Un lutto, una disgrazia, un disastro. Il povero Giovanni (il pianista) avrebbe suonato fino alle tre, e quando gli ricapita? E, a guardarli bene, anche tutti gli altri sarebbero andati avanti. Insomma, in sostanza, ci hanno buttato fuori dallo Smeraldo. Altro che gli spettacoli a tassametro che troppo spesso capita di vedere.
E, alla fine, il look. L’ultimo grido sembrerebbe la camicia di fuori, a sbalzo sui ventri pronunciati da bevitori generosi. Una roba tremenda. Insomma, i jazzisti continuano a vestirsi con un’ingenuità incredibile. Non so perché, ma in un’epoca superficiale come la nostra le cravatte sbagliate sono una boccata di aria fresca.
Insomma, davvero una bella serata. Divertente, interessante, spettacolare. E l’occasione di riflettere su cosa succede quando c’è talento, professionalità e passione.