Il fotografo della Bovisa

Durante il mio secondo anno di università, direi nel 1993, il Politecnico di Milano inaugurò le prime strutture nel nuovo campus di via Durando, in Bovisa. Si trattava di un primo lotto di poche aule all’interno di una fabbrica abbandonata, la Ceretti & Tanfani. Noi frequentavamo qui i laboratori di progettazione e poco altro, mentre il resto delle lezioni ancora si tenevano in piazza Leonardo da Vinci.

Fu così, però, che scoprimmo la Bovisa.

La Bovisa era stata, in un remoto passato, un florida zona agricola costellata di cascine. Poi un’importante area industriale e artigianale. Poi un zona malfamata. All’inizio degli anni novanta non era più niente. E non c’era più niente. Qualche rudere di cascina e qualche ciminiera cadente. Molti abitanti anziani nelle case di ringhiera, eredità del passato operaio. Qualche delinquente agli arresti domiciliari, ma niente di pericoloso. Qualche extracomunitario, ma poca cosa. La maggior parte dei negozi sprangati da tempo o ancorati a pratiche di pura sussistenza.

In quel terreno fertile fu facile farsi tentare e, per una cifra modesta (e grazie all’aiuto dei miei genitori), comprai un negozio a piano terra e mi organizzai per usarlo come spazio di studio e lavoro con alcuni compagni di corso.

Studiare si studiava pochino, disegnare magari un po’ di più. Ma, soprattutto, lo “studio” (così lo chiamavamo) divenne il baricentro di una vasta rete di sfaccedati e perditempo dalle aspirazioni culturali e artistiche più varie. Fondammo anche un circolo: Le Bovisien.

Una delle molte attività a cui ci dedicavamo era la fotografia. Battevamo in motorino la periferia abbandonata e scattavamo improbabili foto in biancoenero. Lo stile era una mix inconsapevole tra Basilico e Cinico Tivù. Più Cinico Tivù che Basilico. Primi piani drammatici di putrelle abbandonate, gasometri altezzosi che si specchiano in una pozzanghera, rotaie a perdita d’occhio e ponti in pietra ignari del proprio destino. Di quegli anni è rimasto poco: il Politecnico è arrivato in forze e, insieme a lui, il passante. I resti industriali sono spariti, senza peraltro far posto a nulla di rilevante. Il ponte in pietra non c’è più e e gli sfaccendati si fingono occupatissimi.

Natura e artificio

È rimasta, tra noi amici di allora, la denominazione “Bovisa”. Non nel senso del quartiere, ormai noto alla città, ma nel senso di attività artistica pretestuosa e infondata. Per esempio, guardando le foto delle vacanze: “e ‘sta foto “Bovisa”, da dove salta fuori” (dettaglio di tondino metallico arrugginito che sbuca da una scogliera artificiale sul molo di Dubrovnik) oppure “Cazzo, sembra la “Bovisa”” (esposizione di ignoti sedicenti giovani promesse in uno spazio mostre a Caronno Pertusella).

L’altro giorno pensavo: l’era digitale è il trionfo della “Bovisa”. Provo a spiegarmi: pensate per esempio a Flickr e alla fotografia digitale. Non è forse possibile trovare su Flickr migliaia e migliaia di scatti “Bovisa”? Si tratta di tutti quegli scatti dalle indubbie qualità tecniche, ma dall’assai dubbia ispirazione. Il sistema automatico di Flickr li considera quasi sempre “interessanti”, ma non sono sicuro di concordare.

Credo che questa proliferazione dipenda da tre importantissime novità introdotte dall’era digitale. La prima è che, nella fotografia come nella musica o nel cinema, sono diminuiti drasticamente i costi di produzione, permettendo a tutti non solo di provarci, ma anche di fare pratica. La seconda è la facilità, attraverso la rete, di reperire informazioni tecniche, corsi, forum, tutorial e how-to. La terza, sempre grazie alla rete, è la possibilità di comunicare a un vasto pubblico (quantomeno potenziale) il risultato della propria pratica.

Da vecchio comunista con devianze anarcoidi dovrei essere felice di questa oggettiva democratizzazione del mezzo artistico. E in parte lo sono.

C’è però un aspetto che non mi piace molto e un po’ mi preoccupa di tutta questa vicenda: quello che potremmo chiamare il “trionfo dell’amatore”. La sensazione è che in questa temperie prolifichi l’idea che tutti possiamo fare tutto, senza dare particolare peso al talento e alla preparazione dei professionisti.

C’è sempre stato l’amico che cambia le ricette del medico, convinto che i suoi studi in giurisprudenza e la lettura settimanale del Corriere Salute valgano più di cinque anni di Medicina, tre di specializzazione e un tot di pratica ospedaliera. O quello che si smonta e rimonta da solo tutta la motocicletta, imprecando contro l’incompetenza e l’esosità dei meccanici, salvo trovarsi alla fine con un bullone in avanzo e una vita sociale ridotta all’osso.

Sono attitudini legittime, per carità, ma non le ho mai condivise. E mi preoccupa l’idea che stiano diventando la cifra della contemporaneità.

Mi rattrista l’idea di un mondo un po’ tutto scopiazzato, perché questo fa l’amatore. Io faccio molte cose da amatore: scatto foto, scrivo questo blog, faccio siti internet. In alcune di queste cose sono anche bravino, ma la differenza con chi le fa sul serio è abissale. E non è una differenza tecnica, o non soltanto. A me riesce ogni tanto una foto bella, un sito gradevole, un testo che scorre bene. Ma difficilmente comunicheranno qualcosa di rilevante. E ancora più difficilmente potrò contribuire alla crescita e all’innovazione di un mezzo che nemmeno domino.

È bello che ognuno di noi si diletti producendo scatti, cortometraggi, racconti, progetti e Long Playing, ma sapremo ancora riconoscere l’eccellenza, quando ci capiterà sotto mano? Sapremo ancora farci guidare da bizzose e antipatiche avanguardie verso lidi futuri che neanche ci immaginiamo? O saremo sommersi da foto “Bovisa”, dischi “Bovisa”, canzoni “Bovisa”, libri “Bovisa”. Tutti carini e di grande soddisfazione per l’autore, principe del foro o idraulico che sia, ma privi di qualsivoglia apporto alla loro disciplina o al progresso in genere?

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