Un iMac G3 Bondi Blue del 1998 è in grado di leggere (e di scrivere) senza alcuna difficoltà una chiavetta usb da 8Gb comprata al supermercato. Incredibile, no?
Un iMac G3 Bondi Blue del 1998 è anche in grado di demolire ogni tua certezza e gettarti nello sconforto, semplicemente permettendoti di rivedere improvvisamente fotografie digitali scattate dieci anni fa e dimenticate sul suo inopportunamente duraturo hard disk da 4Gb. Immagini che dovrebbero appartenere al tuo presente (c’è già la fidanzata che diventerà tua moglie, c’è già la “nuova” casa, i vestiti sono grosso modo gli stessi di ora) e invece ritraggono un te stesso svergognatamente più giovane, si direbbe quasi con dieci anni in meno.
Di bilanci esistenziali, su questo blog, ne abbiamo fatti pure troppi; questa volta vorrei soffermarmi, però, su un dettaglio specifico. Come già ho avuto modo di raccontarvi, in una delle mie molte esistenze parallele sono una sorta di scienziato precario (o gentleman scientist, come mi definirei se fossi definitivamente privo di pudore e un po’ più dotato economicamente). Mi occupo, come ricercatore, di studiare le forme del progetto nella città contemporanea, con particolare attenzione alla residenza e ai modi di usare lo spazio nella quotidianità delle persone (si è capito qualcosa?).
Non facendo riferimento ad alcuna istituzione specifica (e non percependo uno stipendio per fare ricerca), la mia ricerca tende a subire brusche accelerazioni e altrettanto repentine frenate a seconda dei casi della vita. Ultimamente la mia attività scientifica ha avuto un periodo particolarmente intensivo, dovuto all’opportunità di partecipare ad alcuni convegni e ad alcune pubblicazioni con dei miei interventi. I curatori di questi lavori hanno deciso, stupendomi molto, di dare spazio ad alcuni miei ragionamenti; volevate che non ne approfittassi? Perché, come i pazienti lettori di questo blog ben sanno, il Paolone è in grado di produrre più teorie di un giornalista di Libero sotto pseudonimo. Speriamo anche più credibili, ma questo è un altro problema.
Mi è capitato, allora, di chiedermi a che punto io sia della mia supposta traiettoria creativa. Alla soglia dei quarant’anni, per quanto ancora mi verranno idee su cui indagare, teorie da verificare, storie da raccontarvi? Scoprirò mai qualcosa di utile? O forse l’ho già scoperto? O forse il mio momento è già passato e io non ho scoperto proprio nulla? O forse la risposta è dentro di me (e, però, è sbagliata)?
Secondo Robert Root-Bernstein, la distribuzione per età della probabilità di fare scoperte varia a seconda delle specifiche discipline: la probabilità ha il suo picco intorno ai 25 anni per i matematici, ai 30 per i fisici, ai 35 per i chimici e ai 40 per i biologi. Gli architetti? Non pervenuti. Insomma, probabilmente sono già troppo vecchio e mi aspetta un futuro di laboriosa rielaborazione delle modeste scoperte di questa mia gioventù poco fruttuosa ormai alle spalle.
Allora mi è venuto in mente un ragionamento che avevo fatto in passato su acuni dischi che amo molto.
Per esempio, alla fine degli anni Novanta ho avuto una passione ai limiti dell’ossessione per il primo album solista di Manu Chao. So bene che si trattò di una infatuazione collettiva, ma vi garantisco che la mia fu passione profonda, al punto che pur non ascoltandolo da molto tempo, canto ancora alcune di quelle tracce ai miei ignari figli. Orbene, Manu scrisse, compose e registrò quell’album a 37 anni (non so cosa ne pensi Root-Bernstein, ma a me per un musicista pop mi sembrano tantini) dopo dieci intensissimi anni di Mano Negra, dopo aver attraversato il Sud America con un treno delle meraviglie, dopo aver sostanzialmente fondato un genere musicale.
Un altro album che ho amato tantissimo, quasi un decennio prima, era l’Unplugged realizzato da Eric Clapton per MTV. In questo caso, la Mano Lenta (di cui mi vanto di possedere – legalmente – l’intera discografia) aveva addirittura quasi cinquant’anni e di vite ne aveva già vissute parecchie. C’erano stati gli Yardbirds e Bluesbreakers, poi i Cream, il Blind Faith e poi i Derek and the Dominos e la carriera solista. Circa trent’anni sui palchi e nelle sale incisione, senza risparmiarsi nulla degli annessi e connessi tra dipendenze, disgrazie e eccessi vari.
E cosa dire degli American Recordings incisi dal sessantenne Johnny Cash, sotto l’illuminante guida del sempre geniale Rick Rubin? Un album che ti strappa il cuore dal petto come neanche l’invasato del Tempio Maledetto.
E potrei aggiungere all’elenco molti altri dischi, quelli che mi piace chiamare “i dischi perfetti”. Il Gershwin’s World di Herbie Hancock (a proposito di passati variopinti), oppure le Songs for Drella di Lou Reed e John Cale del 1990 (e ci sarebbe anche il folle Lulu di Lou Reed con i Metallica, ma ve lo risparmio).Il Boss, che è il boss, ne fa uno ogni 10 anni (per me: Nebraska, 1982; The Ghost of Tom Joad, 1995; We Shall Overcome: The Seeger Sessions, 2005). In alcuni, rari, casi il disco perfetto è un greatest hits, magari con qualche nuova incisione, qualche inedito incredibile: pensiamo al James Taylor che abbandona la Warner, oppure al Tom Waits che riassume i suoi primi dieci anni alla Asylum, o alla raccolta di Vinicio Capossela (che contiene, tra l’altro, l’imperdibile cover di Si è spento il sole, che cantare Celentano è mica facile…). In certi casi, addirittura, il disco perfetto te lo fa un altro, come nel caso dell’omaggio degli Avion Travel a un divertito Paolo Conte.
La domanda, però, è: cosa accomuna questi lavori? Difficile dirlo. Alcuni sono la conclusione di una carriera, alcuni un punto di svolta, alcuni l’inizio di un lento e (più o meno) dignitoso declino. Alcuni sono il frutto di un lavoro individuale, altri l’esito di un incontro illuminante. Alcuni sono un ritorno alle origini, altri l’ennesimo lancio in avanti.
Io penso che li accomuni la serenità, la sicurezza priva di auto-compiacimento. E poi la maturità, la sobrietà (se capite cosa intendo), l’efficacia. Uno stato di grazia che permette di comunicare i massimo dei contenuti con il minimo dello sforzo.
Per fare il disco perfetto, non basta una buona idea. Non servono necessariamente le migliori canzoni. Oltre a tanto talento e tanto lavoro, serve aver accumulato esperienza, memoria, idee, errori, disgrazie, successi, amicizie. Insomma, occorre aver vissuto.
In attesa, quindi, del post perfetto, continuerei a vivere, e a scrivervi, se mi sopporterete.