Credo di avervi già raccontato come le vicende della vita mi abbiano portato a sposare un’austriaca, conosciuta in Svezia ma che parlava barese, eccetera, eccetera.
Orbene, da quando ci frequentiamo, ho sviluppato un complesso e tormentato rapporto con il tedesco. Prima di tutto ho scoperto che è una lingua molto bella: ordinata, precisa, eppure ricca e calda, e non un’accozzaglia di barbari grugniti come avevo sempre pensato. Poi ho scoperto che è difficile, davvero difficile. Il vocabolario, seppur parente a tratti di quello inglese, ha molti termini di cui è poco probabile intuire il significato. Mentre inizi a pronunciare una frase devi appuntarti sulla mano il verbo, che dirai solo una decina di minuti dopo, in fondo a tutto il costrutto. E poi le parole hanno i casi (tipo il latino, che infatti non ho mai imparato) e mentre silente li declini nella testa cercando di indovinare le desinenze, con quello sguardo un po’ bovino di chi è sopraffatto dallo sforzo, i tuoi interlocutori hanno già cambiato argomento un paio di volte.
E intanto il tempo passa, tra un CD-rom e un corso intensivo, tra un App per l’iPhone una preghiera a qualche santo poliglotta, e io il tedesco continuo a saperlo pochino. Per carità, in caso di necessità capisco e, se la necessità è estrema, parlo anche, ma mi costa una fatica enorme. Così, un po’ per pudore e un po’ per pigrizia, nelle mie permanenze austriache tendo a rinchiudermi in me stesso (ensimismarme dicono gli spagnoli, con una parola straordinaria e intraducibile) e osservo e penso. Forse anche troppo, e finisce che faccio il sociologo della domenica (questo è un avvertimento: se non volete venire sommersi da teorie campate per aria smettete di leggere ora!).
Osservando e pensando, confrontando e ragionando, tendo sempre ad arenarmi nella stessa questione: perché certe cose sono così diverse? Perché c’è tutto un mondo nell’Europa centrale e del Nord dove la gente va in giro in bici, rispetta le code, tratta bene l’ambiente, paga le tasse? Dove si raccolgono i fiori e si lascia la moneta nella cassetta, dove si rispettano i limiti (e i pedoni) e dove ancora c’è una differenza tra una passerella e una spiaggia? È forse una specie di paradiso? Non credo, visto che anche in questi luoghi non mancano smagliature evidenti (pensate che in Austria ancora si può fumare nei locali pubblici), più o meno gravi e preoccupanti.
È difficile spiegare cosa accomuni questioni anche molto diverse: politiche, culturali, civili, di costume. Fondamentalmente credo si tratti di stili di vita, ma non è certo un’affermazione chiarificatrice. Ma a Vienna, facendo il bagno nel Danubio, o a Monaco, passeggiando nell’Englischer Garten, credo che la differenza si chiarisca da sé.
Intendiamoci, non penso che esista alcuna superiorità genetica: la storia della differenza antropologica è solo un alibi per non cambiare le cose. O per non affrontarle nemmeno. Alla base di questo mondo c’è, secondo me, una grande tradizione civile, europea e continentale, soprattutto urbana, di cui l’Italia è stata parte integrante. Ma poi qualcosa è cambiato, e noi ci siamo persi per strada.
La mia idea è che negli ultimi trent’anni (più o meno), mentre il mondo da una parte si massificava e un poco si imbarbariva, si sia andata costituendo in questi paesi una categoria robusta e influente, fatta di studenti e di professori, di intellettuali e di professionisti, di ecologisti razionalisti o veteromarxisti, di liberali e di radicali e di tanta gente comune. Una élite che, nelle differenze, condivide valori e stili di vita, che si è ritagliata ampi spazi nel territorio e nella società e che, anche se spesso minoritaria, ha saputo imporre la propria agenda a governanti e amministratori. Una categoria che ha a cuore i valori della convivenza civile e urbana, che ha una forte sensibilità ecologica e un marcato carattere libertario; che, al di la delle differenti matrici culturali, con spirito post-ideologico persegue obiettivi ideali ma concreti.
Temo che una minoranza così qui non ci sia, o non si veda. E così nel tempo si è progressivamente scavato un solco profondo e ora la distanza sembra incolmabile.
Insomma, se oggi immagino di fare il bagno nella Darsena in un giorno di luglio troppo caldo, di prendere un caffè seduto a un tavolino in gennaio senza fungo riscaldante e dehors triplo strato, di andare in bicicletta lungo piste che attraversano la città, magari con i bimbi cacciati in un carrellino, mi prendono tutti per pazzo. Figurati poi se parlo di muovermi per la città camminando, o di costruire case dove co-abitare, o di lasciare il passeggino davanti alla porta e fare la sauna senza mutandoni al ginocchio. Nella migliore delle ipotesi, ci considerano una nicchia di viziati pazzerelli.
Ne ho parlato spesso, con alcuni amici accomunati da questa passione. Abbiamo condiviso insofferenza e progetti e abbiamo spesso fantasticato di fondare una specie di movimento, di cui abbiamo anche inventato il nome (Ich bin ein Mailänder, appunto, perché noi qui ci vorremmo rimanere).
Chissà se qualcuno ci darebbe retta, chissà se qualcuno la pensa come noi…
Non ho mai amato la definizione di bobos di David Brooks, l’ho sempre trovata un po’ superficiale, ma senza dubbio è un termine che ha avuto un certo successo. Ora, se cercate in google “bobos in Berlin”, trovate l’indirizzo di un sacco di posti carini, se cercate “bobos in Milan” vi esce solo Bobo Vieri…
Anch'io anch'io voglio entrare in questo movimento!!!
|Decisamente|