Eccomi anche quest’anno a raccontarvi i libri che ho letto, sapendo che per alcuni di voi è un appuntamento atteso e gradito e non potendo dunque tradire una così gratificante aspettativa. A questa tradizione, se n’è ormai aggiunta un’altra, che è quella di iniziare il post lamentandomi di quanto poco riesco a leggere… beh, quest’anno peggio che mai. Ma vabbé, non piangiamo sul latte versato (e sulle pagine non lette) e dedichiamoci a cosa questo 2023 ci ha regalato.
Anche stimolato da chi ha notato che la mia lista di libri del 2022 era a drammatico predominio maschile, ho cominciato con una scrittrice, la bravissima italo-tedesca (di origini polacche ebraiche, dato non marginale) Helena Janeczek, e con il suo avvincente La ragazza con la Leica. La Janeczek racconta con sapienza l’incredibile vita di Gerta Pohorylle, meglio conosciuta come Gerda Taro: fotografa straordinaria, avventuriera idealista, genio dell’arte e della comunicazione. Tra le altre cose, compagna di Endre Ernő Friedmann, che contribui in maniera sostanziale a trasformare in Robert Capa. Il libro è un affresco corale del mondo dei fotografi (a degli artisti) politici a cavallo tra le due guerre; difficile finirlo senza sentirsi un po’ rivoluzionari e senza prendersi una sbandata per Gerda.
Avendo letto con gran gusto, sul finale dell’anno scorso, Un gentiluomo a Mosca, mi sono poi buttato su Lincoln Highway, libro tra i piu noti di Amor Towles. Devo confessarvi che non mi ha convinto. L’ambientazione è meticolosa e la storia gradevole, ma l’andamento generale del libro è prevedibile e didascalico, cosi come la sua scrittura. Ho pensato che sarebbe un eccellente libro per ragazzi, ma davvero poco significativo per un lettore passatello come me.
E allora rifugiamoci nel solido Alessandro Robecchi, che è una garanzia fin dai tempi di Radio Pop, e nel suo Carlo Monterossi, ormai di famiglia e definitivamente consacrato con la faccia gentile e autoironica di Fabrizio Bentivoglio. Forse i Cinque blues per la banda Monterossi non passeranno alla storia della letteratura italiana, ma fanno con efficacia e dignità il loro mestiere e avercene di libri così nei momenti complicati della vita.
A proposito di solidità, certo non potevo perdermi il nuovo Don Winslow, secondo dell’annunciata Trilogia di Danny Ryan: Città di sogni. Potente come sempre, anche se non è il Winslow delle prove migliori. Attendiamo con ansia il terzo capitolo della saga e fingiamo di ignorare le dichiarazione del nostro sul fatto che potrebbe essere il suo ultimo libro.
Sempre tra le letture ricorrenti, non poteva mancare Joe R. Lansdale con il suo Hap & Leonard: Sangue e limonata. Un libro bislacco, collezione di ricordi dei due protagonisti. Francamente, un attrezzo per feticisti della saga dei due detective più stranamente assortiti del West. Ma io lo sono, quindi bene così.
Jonathan Franzen è come una malattia stagionale, qualcosa che non pensi sia possibile né sensato tentare di evitare e dunque che cerchi di superare, e fin anche di goderti, senza farti troppe domande. Questo Crossroads conferma talenti e limiti dello scrittore. Una lingua sontuosa, precisa e magistrale. L’ambientazione, ovvero la stagione dei movimenti riformisti degli anni Sessanta nelle chiese protestanti americane, mi ha ricordato certi racconti dei nostri genitori sulla nascita di Gioventù Studentesca (a prescindere da come sia andata a finire) e sulle timide e coraggiose esplorazioni di quegli anni. Per il resto, la trama come (quasi) sempre si accartoccia progressivamente sui dilemmi interiori dei protagonisti (non se ne avrà Franzen, se diremo “sulle menate”), sulle loro debolezze e piccolezze presuntamente universali. Francamente tossico.
Per fortuna è giunto un provvidenziale Fabio Geda a disintossicarmi. La scomparsa delle farfalle è un libro di formazione intimamente e intelligentemente ottimista, pulito e vero. E poi il personaggio forse più bello è Azeglio, un rigattiere di via Barbaroux, proprio dove ho preso casa qui a Torino… coincidenze? Ho letto questo meraviglioso libro in un posto in Corsica che io e Christiane consideriamo speciale, e proprio mentre ero nel pieno della lettura mi sono imbattuto in un fantasmagorico rigattiere: abbiamo comprato uno strano, pesantissimo pezzo di ferro e penso che ce lo appenderemo proprio qui, in via Barbaroux. Ho poi avuto il privilegio di conoscere Fabio, che è davvero una persona speciale, e ho capito molto di questo e dei suoi altri libri.
Proseguendo le mie esplorazioni letterarie di Torino, rimango fedele a Davide Longo, che con Requiem di provincia è giunto al quarto capitolo (cronologicamente in un provvidenziale ordine sparso) della saga di Arcadipane e Bramard. Direi, dei quattro, ampiamente il più riuscito. Per il resto, rimando a quanto scritto l’anno scorso.
Per il mio compleanno la Chrissi mi ha regalato Possibilities, l’autobiografia di Herbie Hancock (scrittta con Lisa Mickey). Hancock è il mio musicista jazz preferito, visto svariate volte dal vivo e ascoltato fino a consumare nastri, vinili e CD (questa cosa che i file nel cloud non si consumano è un po’ un peccato). Le auto-biografie possono essere libri straordinari (uno su tutti: Open, autobiografia di Andre Agassi scritta con J. R. Moehringer) o dei pacchi tremendi, a seconda della bravura di chi aiuta a scriverle e dell’interesse della vita che viene raccontata. In questo caso la scrittura non è gran che, ma la vita è pazzesca. Incredibilmente, nonostante la mia passione per tutta l’enciclopedica produzione di Herbie, sapevo poco della sua vita e leggere il libro è stato davvero interessante e appassionante.
Mi sono poi fatto sorprendere da una giovanissima Beatrice Salvioni e dal suo La Malnata, storia di formazione nella Monza del Fascismo. Piacevole e convincente.
Sono poi tornato da Niccolò Ammaniti, passione di gioventù, che dopo otto anni di attesa ci regala questo strano La vita intima. Sarà la solita abilità narrativa, sarà la scrittura sempre vivace, sarà l’ambientazione tangente alla politica, ma – nonostante alcuni passaggi un po’ forzati – il libro mi ha preso molto e me lo sono proprio goduto.
Ultimo libro completato quest’anno: Quello che noi non siamo, di Gianni Biondillo. Conosco Gianni, anche se superficialmente, essendo un architetto e un milanese come me. Abbiamo un amico in comune che sostiene che ci assomigliamo molto e che mi invia su whatsapp a cadenza periodica fotografie che dovrebbero dimostrarlo, cui io rispondo immancabilmente “non me somiglia pe’ niente”, come diceva Johnny Stecchino. Ho amato molto i primi gialli di Biondillo e ho seguito con divertito distacco la sua deriva psicogeografica. Condivido meno alcune sue posizione pubbliche, o forse solo la postura. Ma tutto questo passa in secondo piano davanti a questo monumentale lavoro. Un libro davvero straordinario, documentato meticolosamente, che racconta la vita degli architetti, principalmente milanesi e lombardi, nel periodo tra le due guerre e sotto il fascismo. Da Terragni e De Carlo passando per Piero e Maria Bottoni, Ernesto Rogers, Lodovico Barbiano di Belgioioso, Gian Luigi Banfi ed Enrico Peressuti (i famosi BBPR), Giuseppe Pagano Pogatschnig, Edoardo Persico, Figini e Pollini, Franco Albini, Ignazio Gardella, Raffaello Giolli, Marco Zanuso. Con una lingua piana, quasi giornalistica, Biondillo ci accompagna nelle loro vite, ci racconta l’infatuazione giovanile per il Fascismo, la crescente irrequietezza, l’improvviso spavento, le scelte difficili, le morti tragiche, fino a una catartica passeggiata nella Milano devastata dalla guerra, una città tutta da costruire. Non so se lo sia per tutti, per me (e credo per molti di noi) un capolavoro, di quelli di cui si dice “da leggere nelle scuole”.