La mia generazione, chissà se per caso o per colpa vostra, ha vissuto adolescenze lunghe, a volte quasi eterne.
Io, anche.
E quando finalmente ho iniziato a diventare grande, ed era abbastanza tardi, tu hai iniziato a diventare vecchio, ed era decisamente troppo presto.
Quando, architetti alle prime armi, abbiamo finito i lavori della Lucciola, nostra prima opera e vostro incredibile atto di fiducia, qualcosa tra le tue cellule ha iniziato a girare nel verso sbagliato. Questo faceva arrabbiare tantissimo tua mamma, la Nonna Graziana, che trovava contro natura che una anziana madre dovesse vedere il figlio soffrire. Chissà quante preghiere alla Madonna della Cornabusa hai causato, forse perfino di più dei nostri esami all’università.
Eravamo nei corridoi dell’Istituto Europeo di Oncologia – tra i muri indifferenti di quegli strani edifici di mattoni che stanno lí, in un equilibrio un po’ irrisolto, tra la campagna e la città – quando ti ho annunciato (ero così emozionato) che io e la Chrissi ci saremmo sposati. Ti sei commosso. Ti stavi curando dal tuo primo malanno: ti avevano dato pochi mesi di vita, forse qualche anno, te ne saresti rubati quasi venti.
Da quel momento tante gioie si sono alternate ai tuoi successivi incidenti di percorso: è arrivata la Luisa, poi anche il Michi. Mentre tu superavi un prova, e poi la successiva, sono cresciuti piano piano (o molto in fretta, dipende dai punti di vista).
Né tu né noi abbiamo mai accettato di essere compatiti… a ogni domanda, la risposta era sempre che stavi bene (come quello del cavallo). Per fortuna (e grazie alla tua tenacia), i tuoi tanti accidenti non ti hanno impedito di vivere la tua vita, e insieme alla tua, la nostra. Qualcuno potrebbe aver equivocato, ma noi sappiamo che la tua ritrosia, l’approccio spartano alla vita, l’allergia per le cose futili non derivavano certo dai tuoi acciacchi, quanto piuttosto dalla tua testa dura di montanaro.
Certo, non è sempre stato facile prenderti per come sei, ma il tuo stile alla fine ha conquistato tutti. Tua moglie, che per tanti anni ha diviso con te ogni cosa, in un delicato equilibrio di opposti che era un piacere da contemplare. I tuoi nipotini, per i quali il tuo affetto sobrio era un oceano di serenità. I, e soprattutto le, tue tante nipoti: di primo grado, di secondo o anche solo putative, che trovavano conforto nei tuoi consigli sempre lucidi e mai giudicanti. Perfino tua nuora ha trovato la sua sintonia, forse perché è un po’ selvatica come te.
E alla fine hai conquistato anche me, che in tante cose sono il tuo contrario: chiacchierone quanto tu eri taciturno, avventato quanto tu eri assennato, sociale quanto tu eri solitario, godereccio quanto tu eri ascetico, pasticcione quanto tu eri preciso, irrequieto quanto tu eri tranquillo, eclettico quanto tu eri dedito. Eppure, quando io ho iniziato a diventare grande e tu a diventare vecchio, è stato sorprendentemente facile andare d’accordo.
Ora sono qui, seduto in parte al tuo letto, e non so bene cosa fare. Il nostro è stato un affetto dalle poche smancerie (o macerie, nel nostro lessico famigliare) e non possiamo certo cambiarlo ora. Siamo entrambi troppi vecchi, ora, perfino io. E allora ti guardo, e scrivo. Leggere e scrivere sono sempre stati i miei punti di fuga, due come le prospettive accidentali: anche in questo diversi, tu nella tua isometrica certezza di poche letture – solo quelle utili – ancor meno scritture – solo quelle necessarie.
Dalla finestra dietro di te si vedono i colli di Bergamo, e non posso pensare un panorama migliore per accompagnare queste ore: la linea è quella che tracciasti su un lucido tanti anni fa, quando ancora credevi che avresti fatto l‘architetto. Quando la ritrovai in un vecchio rotolo e la incorniciai per appenderla in studio, mi guardasti perplesso, chiedendoti e chiedendomi perché: perché era un disegno molto bello, e molto tuo.
Non che tu me l’abbia mai detto chiaramente, ma sono convinto ti abbia fatto piacere che io abbia studiato architettura, e che alla fine abbia fatto l’architetto davvero. Come se attraverso di me ti fossi tolto lo sfizio di fare quello che allora decidesti di abbandonare. Mi hai aiutato tanto in questi anni: eri talmente solido e saggio da poter dare consigli straordinariamente utili anche su cose che non avresti mai voluto (e forse nemmeno saputo) fare.
Abbiamo condiviso molto: l’architettura che noi progettavamo, la città che cambiava sotto ai nostri occhi, la politica che ci appassionava senza rimedio e nonostante tutto. Oggi, dalla finestra di questa nuova stanza, dopo aver viaggiato perché si prendessero cura al meglio di te (quanti professionisti straordinariamente bravi e straordinariamente umani abbiamo incontrato!), si vede il Portello: il centro commerciale, le case del Cino, il laghetto dei girini… per una serie di ragioni eterogenee e accidentalmente convergenti, un pezzo importante delle nostre vite degli ultimi tempi.
Alla fine le cose sono andate come dovevano: io sono diventato grande e tu vecchio, io architetto e tu pensionato, io padre e tu nonno. E stanno finendo troppo presto, ma è stato un bel viaggio, che non cambierei per nulla al mondo.
Conosco tuo padre da quando ero bambina, sempre visto come una figura defilata, di fronte all’irruenza dei suoi altri famigliari. L’ho conosciuto solo da adulta e più che altro indirettamente, dai racconti di Filippo, grande appassionato di tutto ciò che tuo papà aveva intrapreso negli anni.
Lascia tanto, il tuo papà, è stato una di quelle presenze silenziose e costanti nella vita di tanti, nella mia di sicuro.
Ti voglio bene amico mio.
Chiara
Paolo, ho letto per caso le tue parole stamattina. Mi hanno fatto letteralmente venire le lacrime agli occhi, Francesca non capiva what was the matter with me.
Anche se talvolta piango al cinema (l’ultima volta l’ho fatto a Toy Story 3) non mi capita quasi mai nella vita.
L’ho fatto certamente per il loro contenuto (ho un padre anziano che guardo prepararsi al mistero del viaggio sullo Stige) ma anche per la loro forma.
Le opere d’arte (includo in esse le canzonette di Natalie Merchant, le arcate di S.Ambrogio in mattoni e pietra che guardavo ieri al funerale di Antonio, ci metto forse anche Kill Bill 1 e 2) ci colpiscono per la loro doppia natura: una sorta di perfezione interna, di consistenza di un vaso o di un arco ben fatto, arrivo a dire per la loro autonomia costituita dalle salde connessioni tra parti diverse la cui relazione originariamente fortuita diventa “necessaria” proprio grazie a questa struttura; e al contempo per la loro capacità di accogliere come una scodella non solo i nostri sentimenti, ma anche quelli degli altri.
La cassa armonica dell’arte trasforma una vibrazione in suono, e questo suono ha un potere consolatorio, forse anche più forte di quello delle parole dell’omelia funebre che riflette.
Penso che le mie lacrime nel leggere quello che hai scritto siano state mosse da due cose insieme: per quello che hai detto cercando di verbalizzare un dolore così grande, e per come sei riuscito a farlo come poche persone sanno farlo.
Tanti anni fa qualcuno mi ha regalato un piccolo saggio di Simmel su Rembrandt. Nel parlare della dicotomia tra arte italiana (che privilegiava la “tipizzazione” dei caratteri contro la tendenza olandese al realismo ritrattista) Simmel dice a un certo punto: “l’individuo muore, il tipo non muore”. Però poi osserva come negli autoritratti di Rembrandt, che documentano con una certa spietatezza la progressione della sua vecchiaia, la particolarità dell’individuo diventa universale non per “tipizzazione”, ma proprio in virtù della sua individualità.
Non conoscevo tuo padre, ma sei riuscito in poche righe a farmelo conoscere. Ma hai fatto di più: nelle tue parole hai condensato in maniera meravigliosa il pudore dell’affetto tra figli e genitori, che vorrebbe esprimersi mille volte e non trova le parole. Talvolta a mio padre, al quale manca una figlia mai fatta che l’accudisca, stringo la mano o carezzo la testa con le croste della vecchiaia tra i suoi pochi capelli, e in quella carezza c’è tutto quello che non riuscirò mai a dirgli.
Tu hai ritratto in maniera meravigliosa tuo padre, e hai ritratto tutto il nostro stupore per la vita.
Ti ringrazio di cuore, scappo al lavoro,
un abbraccio,
Cino
grazie Paolo,
commozione e lacrime per il mio cugino ritrovato (o meglio trovato) e per te, che hai saputo mettere nero su bianco i sentimenti che io ho provato al capezzale di mia mamma (Antonietta, la sorella di Tino)
mia sorella ha detto ieri … assomigliava a Domenica (la nonna di Marzio) dolce ma forte di carattere e fiero … un grande
Ciao Babbo di Paolo.
Un abbraccio a te, Paolo.
Ciao Paolo. Bello leggere quanto hai scritto. Marzio lo ammiravo molto. Peraltro lo vedevo così simile a mio padre! Silenzioso, pieno di contenuti, amante e grandissimo conoscitore di tutti i segreti della sua Valle Imagna, dedito al lavoro ed alla sua Famiglia e anche lui, come hai detto, allergico a tutto ciò che è futile. Che mai come oggi è una virtù! Un abbraccio a tutti voi. Alberto
Sospettavo, intuivo, percepivo, una storia esemplare, dentro l’austero e, al tempo, dolce stile del Babbo.
Alcune conversazioni degli ultimi anni ne favorivano lo svelamento, la riservatezza vinceva sempre.
Ora, grazie Paolo, la scoperta di un profondo, di un’autentico, di un inconfondibile tratto umano di Marzio che ha plasmato nel tempo, molto di sè e molto, moltissimo, di chi con lui è cresciuto, di quanti l’hanno accostato, di chi ne ha condiviso il divenire del tempo, nel lavoro persino, di chi ha coltivato diffusi affetti della rete familiare.
Questo è l’esito più palpabile che mi resta nella vicinanza e amicizia di Marzio.. sapere che con altri troverò lui, con altri contimuerà a parlarmi, a dolcemente sorridere. Con altri, continua Marzio..