Contaminami!

L’otto ottobre 1998, ovvero quasi vent’anni fa, usciva per la EMI/Virgin Records Clandestino, primo album solista di José Manuel Arturo Tomás Chao Ortega, in arte Manu Chao, fino ad allora noto come frontman della band Mano Negra. Manu, come lo chiamavamo tutti, aveva già alle spalle più di quindici anni di onorata carriera musicale, ma quell’album lo proiettò in una dimensione globale prima forse inimmaginabile.

Io lo scoprii grazie agli amici musicisti che già seguivano le vicende della Mano Negra e la scena di musica meticcia che proveniva dalla Francia, ma di lì a poco approdò su tutte le radio, anche le più commerciali, e il successo fu davvero straordinario.

In breve tempo, Clandestino divenne un’autentica malattia. Ricordo un workshop a La Cambre di Bruxelles, nell’autunno del 1998, dove fu necessaria una mozione congiunta di tutti i partecipanti al fine di evitare che il CD venisse fatto suonare più di tre volte consecutive. Ricordo anche che lo ballammo nella neve davanti a una baita carinziana la notte di capodanno, naturalmente dopo il valzer di rito Sul bel Danubio blu. Ricordo di averlo ascoltato dalle portiere aperte di un automobile mentre facevamo il bagno in un torrente alpino, di averlo suonato sulle spiagge del Salento, di averlo tradotto per amici e parenti sfruttando la mia consuetudine con lo spagnolo.

La cassetta su cui avevo riversato il CD si è consumata per l’uso: credo di averla re-incicsa almeno due volte.

Nella primavera del 2001 uscì il secondo album, Proxima Estacion: Esperanza, prosecuzione quasi senza soluzione di continuità del disco precedente. Certo era difficile eguagliarne l’impatto, e infatti questa nuova uscita fu meno significativa, ma il fenomeno Manu Chao era ormai in orbita e pareva inarrestabile.

Il 21 giugno 2001 più di cento mila persone (tra cui il sottoscritto) erano Milano in Piazza Duomo per il grande concerto di Manu Chao. Fu una festa grandiosa e spensierata, ballammo tutti come matti e tornammo a casa a tarda notte ubriachi di ottimismo.

 

Neanche un mese dopo ci fu il G8 di Genova (dove, anche, c’era Manu). L’11 settembre successivo i Boeing 767 del volo American Airlines 11 e del volo United Airlines 175 andarono a schiantarsi contro le Torri Nord e Sud del World Trade Center di NYC. Per queste e per altre ragioni per tutti noi il mondo non fu più lo stesso.

Negli anni successivi è uscito ancora qualche disco, in tono decisamente minore, e poi quasi un decennio di silenzio discografico totale. Nel frattempo Manu conduceva una vita di musicista, produttore e attivista tra l’Europa e il Sud America, mettendo la sua arte e la sua fama a disposizione di ogni causa che sembrava meritarlo. E, intanto, noi diventavamo grandi.

 

Prima dell’estate ho scoperto che a gennaio Manu Chao ha iniziato a pubblicare sul suo sito alcune nuove canzoni, parte delle quali firmate da un progetto che si chiama TI.PO.TA (acronimo di Transe Indie Progressiv Organik Trash Amor), avventura in cui al nostro si è unita Klelia Renesi, avvenente star della tivù greca di una ventina d’anni più giovane. Si tratta di pezzi abbastanza semplici ma gradevoli, lo stile è quello inconfondibile del Manu di Clandestino: farle partire sullo stereo provoca una specie di distorsione improvvisa del continuum spazio temporale e per qualche istante potresti illuderti di avere ancora vent’anni.

Insomma, l’ondata di nostalgia è garantita e, a questa, segue inevitabilmente — complice il contestuale clima da fine estate — il temutissimo effetto bilancio esistenziale e politico delle nostre inutili vite.

Che ne è stato di quei ragazzi transflontalieri che eravamo, paladini di un gioiosa contaminazione, di un globalismo localista godereccio e spensierato, di una voglia irresistibile di imparare nuove lingue, frequentare nuove culture, calarci negli ambiti degli altri? Badate bene che noi ci credevamo davvero: ricordo addirittura di aver per qualche tempo sostenuto che il meticciato sarebbe stata anche la cifra della nostra architettura… da qualche parte temo di conservare ancora il Manifesto dell’architettura meticcia che scrissi allora.

Davvero: dove siamo finiti? La maggior parte di noi conduce ormai vite assai più stanziali, anche se le scelte di allora hanno segnato in molti casi e in maniera più o meno profonda le biografie, portando alcuni a vivere molto lontano da casa, altri a formare famiglie assai più varie di quanto gli antenati campagnoli avessero mai fatto. Mentre Manu, con l’aria divertita e un po’ senile, balla biotto sotto al mare con la sua greca, noi approfittiamo delle ferie di rito per girare piccoli pezzi di mondo con station wagon ibride e i figli nei sedili posteriori che, nella migliore delle ipotesi, ascoltano Gabbani.

Intanto la gente costruisce muri, ristabilisce confini, mette in discussione unità che a noi parevano non solo scontate, ma addirittura insufficienti. E noi (o almeno io) ci sentiamo sperduti, incapaci di comprendere questa nuova ondata di sovranismo (o qualunque altra cosa sia), concettualmente ed emotivamente disarmati difronte a un ritorno al passato (questo, almeno, è l’effetto che ci fa) inatteso e indesiderato. Accusati a ogni piè sospinto di buonismo, elitismo e ogni altra nefandezza, ci rifugiamo nelle piccole cose: le storie che raccontiamo ai nostri figli e l’educazione che cerchiamo di dargli, la musica che ascoltiamo e i libri che leggiamo, le nostre pratiche quotidiane. In attesa di capire da che parte prendere questa follia e sperando ti poter tornare a ballare tutti in piazza del Duomo, tra le palme e i newjersey, di nuovo fiduciosi in un futuro pacifico anche se maledettamente complicato.

 

Un altro inno, almeno per me, della spensierata passione per il rimescolamento di quella stagione è Contamíname, una bellissima canzone di Pedro Guerra (resa in realtà famosa a fine anni novanta dalla cover live della all-star-band di Joan Manuel Serrat, Ana Belén, Víctor Manuel e Miguel Ríos). Anche questa, a riascoltarla oggi, pare di un’ingenuità disarmante (come probabilmente eravamo anche noi), ma quel sogno di mes-ciòt (come direbbe un lombardo) credo rimanga un ingrediente fondamentale del nostro sistema di valori.

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