Andrea Boschetti con Alessandro Maggioni e Carla Ferrer hanno curato il numero 72 luglio-settembre di IQD, volume interamente dedicato al progetto della residenza e al diritto alla casa, e mi hanno chiesto un piccolo contributo. Ho provato, nel poco spazio a disposizione, a riassumere le linee di lavoro che, dopo ormai una decina di anni di professione dedicata all’abitare collettivo (e qualcuno di più di riflessione teorica) mi sembrano più rilevanti e urgenti. Riporto qui il testo dell’articolo, sperando di non annoiarvi troppo con le mie elucubrazioni.
L’abitare è da sempre un luogo di tensione tra permanenze e mutazioni. Se da un lato ci sembra naturale immaginare che le case dove abitiamo evolvano al mutare delle nostre abitudini e dei nostri stili di vita, dall’altro la struttura fondamentale degli spazi abitativi permane nel tempo con particolare costanza.
Negli ultimi decenni abbiamo però vissuto un’importante accelerazione della mutazione degli stili di vita degli abitanti, in particolare di quelli occidentali urbani. In questo senso, gli anni difficili della pandemia sono stati uno straordinario catalizzatore, portando a maturazione cambiamenti con radici anche più lontane nel tempo. In primo luogo, una sempre maggiore varietà (di forme familiari, di culture, di esigenze, di valori) ha reso rapidamente obsolete le ricerche intorno ai modelli abitativi standardizzati, tipiche della riflessione moderna e tardo-moderna. Anche l’organizzazione dei luoghi e dei tempi della vita è mutata profondamente: l’esigenza di poter lavorare anche da casa e una sempre più spiccata poligamia nei luoghi di residenza hanno portato molti a rivedere il ruolo della casa come radicamento e baluardo della propria vita privata.
La risposta che la cultura architettonica ha dato a partire dalla fine del XX secolo a queste domande è l’elaborazione di strategie di flessibilità e adattabilità, in primo luogo fisica, degli spazi domestici. Questo tipo di ricerca, assai vivace sia nel mondo accademico e pubblicistico che in quello della cultura concorsuale e progettuale, ha avuto esiti molto modesti nella realtà quotidiana degli abitanti, scontrandosi con le limitazioni tipiche della dimensione conservativa dell’abitare. In un certo senso e paradossalmente, alcuni degli esiti di queste ricerche (la minimizzazione degli spazi, l’iper-funzionalizzazione delle attrezzature, il ruolo della tecnologia domestica e del comfort) hanno riscosso particolare successo nella componente più speculativa dell’offerta abitativa, mettendosi di fatto al servizio della dimensione più estrattiva dell’abitare.
Nella necessità di tornare (o di continuare) ad affrontare questi temi, occorre credo porsi obiettivi più ambiziosi, radicali e realistici a un sol tempo.
Il primo tema riguarda la natura intrinsecamente flessibile della quantità: lapalissianamente, una casa più grande è straordinariamente più flessibile. In questo senso il progetto di residenza dovrebbe mettere in campo tutte le risorse utili a incrementare la dimensione, reale e precipita, planimetrica e volumetrica, degli alloggi, limitando o annullando l’impatto negativo di questo obiettivo sulla sostenibilità economica e ambientale dei progetti.
È poi fondamentale de-ideologizzare l’innovazione nel progetto, immaginando che il contributo di mutamento di cui i progetti sono portatori rappresenti un carattere additivo, un dono per l’abitante, easter-egg in attesa di essere scoperti e non un’azione coercitiva e impositiva che paternalisticamente conduce gli abitanti verso modi di abitare suppostamente più evoluti.
In ultimo, e sempre nel campo dei principi apparentemente ovvi ma al contempo assai poco frequentati, occorre difendere la centralità della qualità spaziale – e, conseguentemente, del progetto – nella costruzione dell’offerta abitativa. Attualmente, nella produzione corrente, gli aspetti tecnico-prestazionali prevalgono ampiamente su quelli qualitativi e compositivi, assorbendo la gran parte del budget economico e delle energie organizzative e relegando il progetto alla riproduzione di soluzioni banalizzate o, nella migliore delle ipotesi, alla materializzazione letterale dei desiderata dei committenti, che non trovano più nel progettista una interfaccia capace di coltivarne le necessità e i desideri, accompagnandoli maieuticamente verso risultati più ambiziosi.
Queste sono, a modesto parere di un tipologo pentito, le sfide che i mutamenti degli stili di vita e dei modi di abitare pongono a chi pianifica, progetta e produce l’abitare di oggi e di domani.