Anche voi, qualche mese fa, avete passato una serata a rispondere a domande più o meno strane crocettando un gigantesco prestampato? O magari anche voi l’avete fatto on line come me? (spero almeno una delle due, se no avete commesso un reato…)
Orbene, iniziano finalmente a comparire i primi risultati del Censimento 2011. Non siete desiderosi di trarre le prime, più o meno avventate, conclusioni? Per esempio, Irene Tinagli, precisa e puntuale come non mai, ci fa notare su La Stampa una curiosa anomalia: mentre tutto il mondo si inurba, noi ci provincializziamo. Detto cosí non si capisce molto, ma è un fenomeno davvero curioso su cui il Paolone, travestito temporaneamente da poco-credibile geografo umano (piú umano che geografo), ha deciso di spendere la sua dose settimanale di parole a vanvera.
Dicendo che la popolazione mondiale si sta muovendo verso le città, si fa invero un’affermazione inesatta, anche se quantitativamente inoppugnabile. Questo movimento di persone nasconde infatti fenomeni diversi e non comparabili: l’inurbamento selvaggio e spesso coatto delle popolazioni rurali del BRIC, l’incontenibilità demografica delle megalopoli dei paesi in (perenne) via di sviluppo, la migrazione verso le città occidentali di popoli e persone in difficoltà nel loro paese.
In realtà a noi qui interessa un fenomeno assai più marginale, ma importante, che sta avvenendo nei paesi occidentali. Perché noi, l’inurbamento l’abbiamo già vissuto alcuni tempo fa. Per noi è stato un processo lungo più di cento anni, la cui parabola sembrava ormai conclusa; venne poi il tempo della villetta fuori città, dello urban sprawl, della città diffusa, e la città sembrava destinata a un triste destino di degrado e dismissione (esagerando un poco).
Negli ultimi dieci, forse quindici, anni, è iniziato però un fenomeno nuovo. Gli abitanti, forse delusi dalle promesse non mantenute del paradiso suburbano, forse stufi di pendolare, forse desiderosi di fare quattro passi, hanno iniziato a tornare in città. Lentamente, per ora, ma la tendenza sembrerebbe solida. In tanti hanno indagato questo viaggio controcorrente, chiedendosi quali motivazioni animino questi salmoni urbani. Ne hanno scritto Manuel Castells, Richard Florida e molti altri; a tratti, perfino il Mazzoleni.
Questa, insomma, sembrerebbe essere la tendenza della nuova modernità. Ma non in Italia.
In Italia, ci dice Irene Tinagli, il 66,4% della popolazione vive in città piccole o medie (con meno di 50.000 abitanti) e solo il 22,8% vive nelle 45 città con oltre 100.000 abitanti. Non solo, ma questo dato fa parte di un trend che va rafforzandosi. I Comuni di dimensione medio-piccola (tra 5 mila e 20 mila abitanti) hanno aumentato la popolazione dell’8,1% (un valore quasi doppio rispetto a quello nazionale). Quelli di medie dimensioni del 5,2%, mentre nei Comuni grandi la popolazione è rimasta pressoché stazionaria (0,2%). Le grandi città, in sostanza, perdono abitanti mentre sono quelle medie e piccole ad attrarne.
Com’è successo che siamo diventati anti-urbani? Proprio noi, che deteniamo il diritto d’autore del concetto stesso di urbanità, noi, che siamo modello di ogni finta-piazza del mondo, di ogni albergo con casinò, di ogni mall e di ogni hall che voglia fingersi città.
Com’è successo che siamo diventati anti-moderni? Proprio noi, che siamo stati i più grandi millantatori di progresso, quando nel dopoguerra facemmo credere a tutto il mondo di essere una nazione di città moderne: fontane storiche, architettura avanguardista e moto Vespe (nonostante avessimo i muli ancora per le strade e letterali pezze al culo).
Il tema è complesso, e andrebbe trattato in luoghi (e da studiosi) più opportuni. Ma la voglia di fare qualche ipotesi è difficile da eludere. Viene da pensare, per esempio, che la città moderna sia un organismo troppo complesso da gestire per il fiato corto del nostro ceto politico, e così le nostre grandi città non sanno risolvere quelle criticità (sicurezza, traffico, inquinamento, melting-pot) che negli anni Settanta e Ottanta spaventarono gli abitanti e che le altre realtà europee stanno affrontando (a volte con successo) da anni. Viene poi da pensare che l’individualismo asociale in cui si è evoluto il già esecrabile familismo amorale italiota, sia inadatto alla civile convivenza urbana. Infine è difficile credere che non abbia un ruolo quel conservatorismo fazioso, quel luddismo diffuso, quella nostalgia per un passato-meraviglioso-che-non-è-mai-stato che sembra possedere l’anima di tanti (troppi), a destra come a sinistra.
Lasciate allora che propini anche a voi il mio credo urbano, che vado diffondendo di porta in porta con l’ostinazione molesta di un fedele un po’ gnucco, costretto al proselitismo dalla sua religione minoritaria e perdente.
La città è il luogo pericoloso della convivenza, è il luogo della sorpresa e dell’inatteso, è il luogo della libertà e della partecipazione. In un continuo corto circuito semantico, città e civiltà condividono la loro origine etimologica, urbanità è al contempo cortesia di modi e appartenenza alla città: nella cultura occidentale, sembra impossibile parlare di città senza parlare di (civile) convivenza. Questa dovrebbe essere la città democratica, come una sessione di jazz: libertà ordinata da un insieme di accordi e dal rispetto reciproco.
Ci sono però molti modi per tradire la città, questa città. Si può costringerla in un’omogeneità innaturale, questa è la città degli assolutismi e delle dittature. Oppure abbandonarla alle scorribande, questa è la città della deregulation. In Italia, la città contemporanea, la nostra città, sembra inesorabilmente dibattersi tra questi opposti estremi, come incapace di trovare altre vie.
Competenze tecniche e esigenze reali, innovazione e tradizione, novità ed esperienza: la città che vorrei si alimenta di queste (apparenti) dicotomie. Una città che pur mutando nel tempo sappia mantenere il suo carattere, che sappia innovarsi senza tradirsi. Una città dalla natura cooperativa, che si alimenta del concorde sforzo dei suoi elementi singolari; elementi che, perseguendo i propri obiettivi all’interno di un codice comune, giovano al tutto e si giovano del tutto. In questo senso credo ancora e più che mai che la città sia fatta dai suoi abitanti (non utenti, non clienti: abitanti) e che il suo tessuto fisico siano le case dei cittadini. Una città così non può che essere lo specchio di una opinione condivisa, costruita con il dialogo e il confronto. Oggi abbondano però i maxischermi nelle convention promozionali e i pulpiti di sedicenti tribuni della plebe. Scarseggiano invece i tavoli dove discutere in maniera aperta e serrata sui destini della città.
Io vorrei solo godermi la città, la mia città. Dite che pretendo troppo?