Che barba!

La mia nonna Luisa aveva un eloquio molto colorito. Parlava (senza risparmiarsi) l’italiano ricco di contaminazioni dialettali di una milanese nata nelle case popolari, figlia di un operaio (pare socialista) invalido di guerra e andata alla scoperta del mondo. Parlava senza difficoltà le lingue, nel senso che – in presenza di uno straniero – si limitava ad alzare la voce e ad aumentare l’enfasi dei suoi eloquenti gesti. Parlava utilizzando espressioni che ricordo con affetto e che, correndo il rischio di apparire un po’ ridicolo, uso alle volte ancora. Diceva che Russia! lamentandosi della confusione e commentava, sospirando, oh signur. Rispondeva el diavul che ven a pè ogni volta che qualcuno chiedeva “chi è?” e mi insegnava la filastrocca della Ciribiciaccola. Esclamava ciapa su constatando la sfacciataggine dei suoi consimili e, quando non ne poteva più, diceva: che barba!

Ho iniziato a farmi crescere la barba nel luglio del 1998. Partivo per un viaggio in bicicletta – quasi mille chilometri nel Nord della Spagna – e, nel (vano) tentativo di ridurre il peso da trasportare, pensai che potevo rinunciare al necessario per sbarbarmi ogni mattino.

Tornato da quel viaggio, proseguii per Malmö, dove mi aspettava un workshop internazionale di progettazione. La sequenza di arrivo e ripartenza fu talmente rocambolesca che non ebbi il tempo di sbarbarmi. In Svezia conobbi mia moglie e fu (letteralmente) amore a prima vista. Non capacitandomi di cosa potesse aver indotto lei a innamorassi di me, sviluppai un certo timore nel modificare l’assetto delle cose che permisero tale miracolo. Questo non mi ha impedito, ahimè, di mettere su qualche chilo (anche se il grosso del danno era, al tempo, già fatto) ma, non intendendo sfidare oltre la sorte, ho pensato bene di non tornare a radermi.

La barba allora non era di moda, né era una particolare eccentricità: era una semplice opzione tra le altre, compatibile con un amante del low-profile come me. Sono passati più di quindici anni e la barba è diventata, credo a causa del fenomeno hipster (qualunque cosa esso sia), un feticcio modaiolo. La gente si scambia consigli sulla sua cura, proliferano barbieri sofisticatissimi e prodotti ricercati, modelli e attori sfilano esibendo pelurie d’ogni foggia.

Personalmente mi sento parecchio lontano da questo stile, non condividendone più di tanto la cifra estetica generale. E poi non ho il physique du rôle: mi ci vedete con la magliettina aderente, il pantalone acqua-in-casa e le espadrillas?! In buona sostanza, sebbene sia convintamente progressista in molte cose, sono senza dubbio conservatore per quanto riguarda la mia immagine esteriore: il mio ideale estetico temo sia il quieto casual delle pagine autunnali dei cataloghi a la Ralph Lauren…

Ma qui la questione è un’altra. Cosa si deve fare quando ci si ritrova proprio malgrado alla moda? Io, soprattutto, cosa dovrei fare? Dovrei tagliarmi la barba? No di certo, con il rischio che l’incantesimo si rompa e mia moglie rinsavisca all’improvviso, mollandomi per un partito più adeguato. Oppure convertirmi alla bici-da-corsa-degli-anni-settanta (che la fissa è troppo mainstream) e alle oxford senza calze? Non si può fare: ho già chiarito che non ho il fisico per queste mise. Insomma, mi limiterò ad aspettare che la barba passi di moda, portando con nonchalance questo pezzetto della mia storia privata. Però, come avrebbe detto la mia nonna Luisa: che barba!

 

Ho scoperto che la barba come la porto io si chiama, tecnicamente, short boxed beard, anche se temo di non assomigliare molto alle immagini che compaiono se cercate questo termine su Google. Quantomeno non a George Clooney.

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