Heinrich Band viveva a Krefeld, una piccola città affacciata sul Reno, a Nord Ovest di Düsseldorf. Heinrich era il secondo dei sedici figli di Peter Band, commerciante e inventore di strumenti musicali e rinomato violinista. Seguendo le orme del padre, Heinrich fu musicista e commerciante, suonando nell’orchestra locale e aprendo la sua bottega di strumenti.
Nell’Austria e nella Germania di inizio ottocento andavano diffondendosi strumenti ad ancia libera con mantice dedicati alla musica popolare, che i tedeschi chiamavano harmonicas e gli austriaci accordion. Erano strumenti semplici e dalla limitata estensione, ma di grande facilità e trasportabilità. Carl Friedrich Uhlig a Chemnit e Carl Friedrich Zimmermann a Carlsfeld (che straordinaria fantasia avevano i tedeschi nel decidere i nomi dei loro figli!) avevano sviluppato delle versioni più sofisticate dello strumento. Il nostro Heinrich, intuitone le potenzialità, ne organizzo la produzione, introducendo anche alcune modifiche, e ne avviò la commercializzazione, affiancandola alla messa a punto di un apposito sistema di notazione musicale con cui pubblicava le partiture. Probabilmente in suo onore, questo strumento divenne famoso come il bandoneón.
Possiamo immaginare che Heinrich avesse pensato al bandoneón per tutte le occasioni, sacre o profane, in cui era legittimo desiderare un buon accompagnamento musicale, ma improbabile sperare in un vero organo e un vero organista; la maggior parte degli esemplari ancora mostrano il segno delle asole che permettevano di appenderli a delle bretelle per suonare alle feste e alle processioni. Il bandoneón fu in effetti un vero successo commerciale e venne prodotto da diversi artigiani in un grandissimo numero di esemplari, perlopiù esportati in Argentina.
Già, perché nel frattempo si era innescato un fenomeno di portata epocale, e le masse diseredate di tutte le nazione europee avevano iniziato una inesorabile migrazione verso le selvagge e promettenti terre d’oltre oceano. Ancora oggi potete trovare, in Patagonia per esempio, comunità di biondissimi contadini che cantano in tedesco lode al Signore sotto i cieli australi. Si dice che un marinaio tedesco saldò un debito in un’osteria lasciando il suo strumento, ma questa è forse solo leggenda; sicuramente già a fine secolo si registrano importanti importazioni di bandoneón dalla Germania all’Argentina.
Nel sud della Spagna, i diseredati venivano già da lontano. Erano partiti, probabilmente intorno all’anno Mille, dal Punjab e dal Rajasthan e forse si erano fermati qui perché più avanti c’era solo il mare. Avevano trovato una terra a suo modo ospitale e una tradizione musicale di cui si erano appropriati. E quando dall’Andalusia in tanti partirono per cercar fortuna nelle Americhe, portarono con sé la musica e i balli nati da qualche secolo di convivenza tra payos e gitanos.
 
Laggiù, al Río de la Plata, spagnoli e tedeschi incontrarono europei di ogni stirpe e africani giunti non proprio spontaneamente; sotto stelle diverse da quelle a cui erano abituati, si trovarono i poveri di ogni paese e, forse per sopravvivere, si misero a ballare. E ballando, inventarono il tango.
Come probabilmente sapete, il bandoneón divenne con il tempo lo strumento musicale fondamentale del tango, sostituendo nella formazione classica delle orchestre il flauto, con grande dispiacere di Jorge Luis Borges, che temeva che in questo modo si perdesse l’origine popolare e malavitosa della musica argentina.
 
Dove ci sono diseredati, non possono mancare gli immigrati italiani, e certo non mancarono in Argentina, arrivando a segnarne profondamente perfino la lingua. Da una famiglia di immigrati di Terni nel 1921 nacque, a Mar del Plata, l’uomo destinato a portare il tango e il bandoneón nella modernità. Benché cresciuto nell’allora malfamato Greenwich Village di New York City, dove la famiglia si era trasferita, Ástor Piazzolla venne comunque iniziato al culto del tango, principalmente attraverso i dischi di Carlos Gardel e Julio de Caro collezionati dal padre Vicente “Nonino“. Piazzolla ebbe una formazione musicale classica a New York e a Fontainebleau, ma durante la permanenza in Francia conobbe il Jazz (e se ne invaghì). Tornato in Argentina a metà negli anni cinquanta cominciò una straordinaria carriera di compositore e musicista che porterà il Nuovo Tango (che era poi un sapiente mix di tango tradizionale, jazz, musica barocca e musica contemporanea) nel cuore della musica occidentale.
Ora non vorrei annoiarvi con tecnicismi, ma per il discorso che stiamo facendo è importante comprendere la filosofia alla base della complessa disposizione dei tasti del bandoneón. Lo strumento nasce infatti, come dicevamo, per facilitare suonatori poco esperti e dispone quindi i tasti in modo ideale per suonare senza fatiche gli accordi fondamentali della musica popolare e sacra di quel periodo. Suonarci anche solo la melodia di Fra’ Martino è una fatica inimmaginabile. La mano destra ha 38 tasti, la sinistra 33; considerato che i tasti provocano l’emissione di note diverse alla pressione e al rilascio, occorre memorizzare la posizione di 142 note. Dal punto di vista di un musicista moderno, le note sembrano disposte a caso e suonare una semplice scala obbliga le dita a prodursi in un affascinante balletto. Figuratevi per suonare un tango.
Insomma, uno strumento apparentemente inadatto a questa musica, eppure efficacissimo. Basti pensare ai rumori che, sotto sforzo, producono le meccaniche e il mantice (e le articolazioni del musicista), suoni che punteggiano meravigliosamente le movenze sincopate del tango, inspiegabilmente da sempre suonato senza percussioni. O il sospiro al cambio di direzione del movimendo del mantice, verso la cui impossibile sparizione tende ogni bandoneonista. O ancora la stereofonia legata all’inseguirsi dei contrappunti tra i due lati dello strumento.
Insomma, uno strumento di straordinaria difficoltà e di inimitabile di poesia, che potreste considerare come occupazione per la pensione.
 
Conoscete il Paolone e sapete che, quando non si perde in nostalgie autoreferenziali, ha una non meno molesta tendenza a tirare la morale da ogni storiella. E infatti, la morale, eccola qua. Perché in tutti questi anni non è venuto in mente a nessuno di costruirsi un bandoneón Jazz? Perché perseverare a litigare con una tastiera fatta per (e da) un renano pieno di birra? Va che non è mica una domanda da poco.
“Senza vincoli non so progettare”, diceva Franco Albini, e diceva bene. Le regole, i limiti, le costrizioni, sono il sale della vita, direbbe il Paolone. Davvero non possiamo sapere come sarebbe stato il tango senza la delirante disposizione dei tasti del bandoneón, senza la fatica delle dita, senza quel mantice lungo tre volte la largezza delle bretelle di un paio di lederhose.
Quante volte usiamo le costrizioni come alibi, invece che come alimento; come limite invece che come orizzonte, come fine invece che come mezzo?
Quindi lunga vita alle regole, senza le quali non potremmo né ubbidire né trasgredire, lunga vita ai limiti a cui tendere fino a superarli, lunga vita alle costrizioni e alle successive liberazioni. E lunga vita al tango.