Il collegio in Isvizzera

Lessico famigliare è un termine entrato nel lessico famigliare di tutti noi, da quando, nel 1963, Natalia Ginzburg ha pubblicato il romanzo autobiografico Lessico famigliare. Appare oggi scontato affermare come ogni famiglia abbia un frasario proprio e esclusivo, confine impalpabile della propria identità, fondamenta di quello che poi ciascuno di noi diventerà. Questo è, credo, merito del bellissimo libro di Natalia Ginzburg.

Anche noi avevamo (e abbiamo) le nostre parole, in famiglia.

Alcune derivavano dalla storpiatura di parole reali. La migliore: intrepido, che in mazzoleninese voleva dire goffo e insicuro, al contrario del significato reale. L’uso della parola era talmente consolidato che, quando da piccoletto scoprii l’esistenza della rivista l’Intrepido, chiesi a mia madre perché mai avessero intitolato un giornale alle schiappe.

Altre derivavano da un divertito ricorrere al dialetto. Soprattutto le braghe, termine non so perché spesso preferito all’italiano pantaloni, ma anche le ciapote, credo in onore di un goffo complimento che uno zio proferì durante un ballo adolescenziale. Oppure la pachera, che era poi la scavatrice (la mia successiva faticosa frequentazione con il tedesco, mi ha portato a formulare l’ipotesi che la parola, diffusa in tutto il lombardo-veneto, derivasse dal tedesco bagger, ma ovviamente non ne ho le prove).

E poi ce n’erano molte altre, ironiche e serie, ignoranti e colte, utili e inutili. Nella nostra famiglia, però, oltre a un lessico c’è sempre stata anche una toponomastica famigliare. Luoghi reali o, più spesso, immaginari, che costruivano la geografia delle nostre vite.

Prima di tutto: Bottanuco. Che, nella realtà, è un paesone di cinquemila anime perso nelle nebbie dell’Isola, sul confine tra la provincia di Bergamo e quella di Milano (e, almeno per ora, quella di Monza e Brianza). Attrazioni degne di nota: non pervenute. Nella nostra toponomasica famigliare, Bottanuco era la quintessenza del luogo privo di interesse, da utilizzarsi soprattutto in contrapposizione ai malcapitati che ostentassero, anche inavvertitamente, il loro viaggio in qualche meta esotica. Cose tipo: “Ah, hai passato Capodanno a Parigi? Bella? Bé, io ero a Bottanuco”. Colmo dell’ironia era il fatto che il fondatore e maggior frequentatore della nostra Bottanuco è uno zio (quello delle ciapote) che, a causa di un lavoro in una grande azienda, avrebbe potuto esibire diecine di passaporti consumati a suon di visti e timbri di viaggio.

A causa di un altro zio, l’immancabile zio d’America, l’America era un luogo non meno leggendario. L’America di famiglia coincideva solo in parte con la nozione geografica e storica del termine. Intanto, l’America era quella del Nord, sostanzialmente gli Stati Uniti, senza bisogno di specificazione. E poi l’America era una versione idealizzata della nazione reale. In America tutto era grande, moderno, civile. Alle volte esagerato, forse (“non siamo mica in America!”), ma comunque con una connotazione sostanzialmente positiva. L’America era il futuro che ci attendeva impaziente, era la misura del nostro sviluppo, era l’urgenza di diventare grandi.

Dopo una campagna elettorale per il consiglio di istituto del mio liceo, condotta dal sottoscritto forse con un eccesso di furia modernizzatrice, l’ala sinistra della nostra coalizione elettorale si ribellò e votò scheda nulla; una delle schede annullate recitava “Mazzo, cazzo, non siamo mica in Amerika!”. Fu forse l’inevitabile contrappasso per l’amore giovanile per la grande nazione d’oltre Oceano. Vincemmo ugualmente le elezioni con una maggioranza soverchiante (ogni riferimento all’attuale situazione politica è, forse, casuale).

La Russia era, invece, il disordine. Che russia! esclamava la mia milanesissima nonna materna quando entrava in una stanza sottosopra. Evoluzione, forse, di quel quarantotto a lungo diventato sinonimo di disordine, invece che ricordo della primavera dei popoli che vide il nostro Sud avanguardia delle rivoluzioni borghesi che infiammarono per un anno un intero continente. Ma la vita tira spesso di questi scherzi e io, milanese orgoglioso, applaudo entusiasta ogni capodanno al suono della Marcia di Radetzky, immemore delle Cinque Giornate.

 

Luogo totalmente immaginario era, invece, Chiavarucci. Si trattava dello specchio immaginifico della reale Chiavari, dove il mio nonno materno aveva una casa di villeggiatura che ancora usiamo (e amiamo). Chiavarucci era una sorta di Paese dei Balocchi, ma privo di (moralistiche) connotazioni negative. A Chiavarucci non si diventava asini, forse perché a Chiavarucci non ci si poteva andare; Chiavarucci era fatto per il desiderio di essere raggiunto, non serviva andarci davvero. Chiavarucci era l’ingenua Utopia di bambini.

La minaccia più grave era, invece,Il collegio in Isvizzera, generica ma non meno efficace istituzione correzionale, persa in un algido paese reso ancora più inospitale dalla i prostetica che ne mutava il nome. Nel collegio in Isvizzera si mangiava con i libri sotto alle ascelle, si rispondeva solo se interrogati, si sedeva composti, si parlava a bassa voce e si studiava molto. A casa nostra, nonostante le minacce di essere inviati per lunghe permanenze in tale inospitale luogo, mica tanto.

L’istituzione e, conseguentemente, la minaccia persero di smalto quando si scoprì che una scombinata bis-cugina, impenitente sessantottina e oppositrice dell’ordine costituito per intima costituzione, arrotondava il magro stipendio di insegnante lavorando d’estate, per l’appunto, in un collegio in Isvizzera. Allo stesso modo si potrebbe dire che l’America non è più quella di una volta, inseguita senza pietà dall’America vera e dai suoi invadenti limiti (anche se Obama ci ha dato una mano a riprendercela, almeno un pochino). La Russia, invece, rimane un quarantotto. Ma, soprattutto, Bottanuco è sempre Bottanuco.

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