Il dottorato di ricerca, che ho frequentato tra il 2002 e il 2005 al Politecnico di Milano giusto dopo il servizio civile svolto facendo il bidello in una scuola materna, mi ha insegnato molte cose. Alcune più ovvie e istituzionali, altre meno. Tra le seconde: lo scarsissimo valore del mio tempo; l’alta probabilità che uno studioso americano risponda a una tua mail, inversamente proporzionale a quella che ti risponda un amministrativo italiano; l’importanza di sapersi imbucare ai convegni, l’arte di individuare i convegni con i buffet più ricchi e la capacità di sapersi imbucare ai convegni con i buffet più ricchi.
Una volta finito il dottorato, ho esercitato con dedizione per anni ciò che avevo appreso. Per esempio, nell’ottobre 2010 ho visto passare un convegno che mi sapeva di grande occasione e ricco buffet, e non me lo sono lasciato sfuggire. Si trattava del primo (e, a quanto mi risulta, unico) convegno di Idee Italiane, progetto promosso dalla Fondazione per l’Istituto Italiano di Scienze Umane presieduta da Gae Aulenti, ente di cui non so nulla ma che temo facesse parte della galassia del SUM di Firenze, istituto che venne poi coinvolto in una questione di spese allegre e finì incorporato nella Scuola Normale Superiore di Pisa nel 2013.
In effetti il convegno era sfarzoso, almeno rispetto allo standard a cui ero abituato da dottorando in materie irrilevanti e affini. La kermesse, supportata da Fondazione Corriere, Fondazione Cariplo e Fondazione Pirelli si svolse all’auditorium Pirelli HQ, forse l’edificio più bello della (discutibile) Bicocca gregottiana, e l’organizzazione era senza dubbio di livello.
Il pubblico era diverso da quello che si usava incontrare in questo tipo di occasioni, anche se non mancavano volti noti. Ricordo di aver seguito la gran parte del convegno seduto accanto a Stefano, incontrato lì: fummo presi da quella sindrome da liceali nell’ultima fila del pullman (o, forse più propriamente, da vecchietti del Muppet’s Show) che alle volte si impadronisce di noi e spettegolammo per ore su presenti e assenti. E ricordo anche che nel foyer incontrai l’illuminato e sempre squisito Ennio Brion, che avevo appena avuto il privilegio di conoscere grazie ad Architetticercasi, con cui io – sconosciuto e ancora ingenuo giovincello – chiacchierai a lungo provocando involontariamente l’astio dei questuanti in coda.
Il Convegno era il secondo appuntamento di una due giorni ed era dedicato allo stato e alle prospettive dell’architettura italiana. Il prestigioso panel prevedeva, dopo un’introduzione di Gregotti, interventi di Carlo Magnani, Luca Molinari, Fulvio Irace, Franco Purini e Bernardo Secchi: alcuni più interessanti, altri meno (lascio a voi indovinare quali).
Ma poi è venuto il turno di Rafael Moneo.
Moneo fece un lungo e appassionato intervento, tutto in italiano, dedicato all’architettura del nostro paese, da prima della guerra alla contemporaneità, così come poteva essere vista da uno studioso straniero. A parte la mia particolare passione per l’italiano parlato con la morbidezza di chi viene dal casigliano, credo di poter dire che fu un discorso memorabile. Una disamina asciutta e ficcante di come fossimo arrivati a essere un riferimento internazionale per la cultura e per la teoria architettonica europea (se non mondiale) e, soprattutto, di come da lì fossimo scivolati inesorabilmente nell’irrilevanza. Un intervento duro ma affettuoso, con quell’affetto di chi guarda al cugino più grande che ha tanto amato e idealizzato quando lo vede perso e non capisce perché. Mi immedesimai moltissimo, ricordandomi come io, studente in quegli anni Novanta che furono forse il punto più basso di questa parabola, scoprii e imparai ad amare l’architettura italiana proprio dai miei professori spagnoli.
Umberto Eco, incaricato di tirare le fila del convegno, aveva seguito diligentemente i lavori in prima fila e fece un intervento finale puntuale, colto, divertente e naturalmente interessante, ma non mi sembrò cogliere la straordinarietà del contributo di Moneo, forse così significativo solo per un addetto ai lavori.
Da allora mi è capitato diverse volte di ripensare a quell’affettuoso atto di dolore e di usare i passaggi che ricordavo per ricostruire il passato e immaginare il futuro. Con l’amica Belén abbiamo anche cercato, purtroppo invano, di capire se esistesse ancora il testo che Moneo aveva preparato. Non ci rimane dunque che il ricordo, con tutta la libertà di feconda travisazione che questo esercizio di memoria ci consente. E l’amore per il meglio della nostra cultura architettonica, amore un po’ contaminato e per questo rinforzato dallo sguardo altro dei cugini iberici, che grazie al loro distacco ci conoscono e ci capiscono meglio di quanto potremmo fare noi.