Ogni anno, da alcuni anni, per Natale una cara amica di famiglia ci regala una scatola da 24 boeri artigianali, prodotti da un non meglio specificato conoscente. I boeri sono di una bontà straordinaria e giungono ogni volta con la raccomandazione di non mangiarli subito, perché “devono maturare”. Così vengono riposti al riparo dalle gozzoviglie natalizie, spediti a Milano con il servizio postale interno della famiglia Mazzoleni e recuperati al rientro. I primi due boeri vengono mangiati (da me e da mia moglie) la sera del sette gennaio. E poi ogni sera ci si concede questo piccolo, privato, lussurioso piacere. Per una quindicina di giorni, a volte anche di più, tenendo conto di qualche serata passata fuori casa. Poi finiscono, e l’ultimo boero si porta via l’illusione, la disperata ostinazione, che ci teneva attaccati alle vacanze passate e, volenti o nolenti, ci si trova proiettati nel nuovo anno. In questo caso, il Duemilaetredici.
Non possiamo che constatarlo: il Paolone ha preso il Duemilaetredici un po’ di punta. Come affrontare una maratona con il passo da centometrista. E il fisico di un bevitore di Chianti. O del Paolone, appunto. Risultato prevedibile: a un mese dal rientro, ne sembrano passati sei.
E da quasi un mese non scrivo il Paolone.
Ma, ve lo giuro, non è stata colpa mia!
Abbiamo organizzato una impegnativa, per quanto divertente, partecipazione del nostro studio a un importante concorso, sostanzialmente perché eravamo disoccupati; e ci ritroviamo con lavori che ripartono dopo anni (letteralmente) di inspiegabile pausa. Per poi magari risparire come fate morgane.
Ci siamo sciroppati una virulentissima varicella della primogenita, comparsa con sospetta puntualità il primo giorno di ritorno a scuola. Nel frattempo, la nostra sporadica e volenterosa baby-sitter era sommersa di esami. In aggiunta, la gentile signora filippina che, comparendo a casa nostra per le poche ore settimanali che possiamo permetterci, mantiene entro la soglia della dignità la nostra dimora, si attardava inspiegabilmente nelle sue terre natie, lasciandoci sepolti di panni da stirare e polveri malsane.
Gli impegni istituzionali assunti con slancio e generosità si sono mostrati — in vero come previsto – delle gran lavorate, ancorché assai gratificanti. Il fisico, inspiegabilmente, non appare rinfrancato dalle due settimane abbondanti di libagioni iperproteiche e presenta il salato conto di anni di trascuratezza.
Negli ultimi giorni ho progressivamente mostrato evidenti segni di cedimento, tipo: ritrovarmi in Cadorna con il motorino senza benzina, svegliarmi nel cuore della notte e scrivere la prima pagina di un romanzo che non scriverò mai, cercare su internet gli indirizzi dei collegi in Isvizzera dopo l’ennesima cena-rissa con i miei figli, accusare malori e malanni di difficile diagnosi.
Poi un tizio svedese ha inventato un cavolo di gioco sull’iPhone che ti consuma i pochi minuti liberi della giornata.
Insomma, ero rimasto senza benzina. Avevo una gomma a terra. Non avevo i soldi per prendere il taxi. La tintoria non mi aveva portato il tight. Era crollata la casa! C’è stato un terremoto! Una tremenda inondazione! Le cavallette! Non è stata colpa mia! Lo giuro su Dio!
I boeri sono finiti e dovremmo essere pronti per affrontare le nuove avventure che il duemilatredici ha in serbo per noi. Come ogni anno, non mi sento affatto pronto. Ma ce la faremo anche questa volta. Credo.