Lunedì 19 ottobre 2020 sono stato invitato a tenere un piccolo intervento nella giornata “La Metropoli dei Quartieri” all’interno del ciclo FareMilano. Di seguito trovate, più o meno, quello che ho detto.
Milano non esiste è il titolo di un racconto di Tommaso Landolfi da cui spesso muovo per ragionare intorno alla nostra città. Milano infatti, é evidente, non esiste, come è ampiamente dimostrato dalla letteratura recente, dalla cinematografia, dalla critica e finanche dall’opinione comune.
Milano non esiste: tutt’al più, sembra, come cantava David Riondino, perché le poche volte che di Milano si vuol parlar bene, o almeno parlare, lo si fa paragonandola ad altre città. Che Milano in certi viali pare Parigi, che i suoi inattesi parchi la fan quasi sembrare Vienna, che certe volte la stupefacente vivacità serale e notturna delle sue strade la rende una Barcellona giusto un poco più fredda, che la sua operosità ne fa una Monaco (ancor più) meridionale, che ha un passato industriale che quasi Liverpool o Manchester (che non son solo squadre di calcio). Milano – è evidente – non esiste, ma esistono forse molte Milano.
In questa Milano che non esiste io sono nato e cresciuto. Quando ero ragazzino, giravo per la città in bicicletta, mezzo che avrei abbandonato solo ai tempi dell’università, sostituendolo con una Vespa PK 50 i cui pezzi credo siano ancora sparsi all’incrocio tra via Guglielmo Silva e Via Onorato Vigliani. La bicicletta era un oggetto fondamentale della nostra vita, era la libertà. Oggi, che ho scoperto che come ciclisti urbani eravamo dei precursori, mi piacerebbe rappresentarmi romanticamente su qualche mezzo vintage degno di una Eroica urbana, ma purtroppo gli anni Ottanta e Novanta furono anni difficili per l’estetica di tutti noi, e il mezzo era piuttosto un rampichino dagli improbabili colori fluorescenti. Girare per la città in bicicletta era un atto di coraggio e tenere la stessa bici per più di qualche mese una botta di fortuna. Quando ce le rubavano, al sabato mattina si andava alla Fiera di Senigallia sulla Darsena per vedere se riuscivamo a trovarla, o per comprarne una sostituta, probabilmente rubata a qualche altro povero Cristo. La Fiera fu spostata quando si decise di fare, sotto alla Darsena, un grande parcheggio interrato. Come tutti sapete, quel parcheggio non si fece mai e, dopo molti anni di un immobile cantiere, nel 2015 fu eseguita solo la risistemazione della superficie e la Darsena fu riaperta al pubblico.
Oggi, con la vostra licenza, eleggerò questa nuova Darsena a simbolo del grande equivoco che in questi anni abbiamo vissuto, ovvero che Milano esista per davvero.
Il 2015 era l’anno dell’Esposizione Universale, che non era partita benissimo. I Cantieri si erano chiusi all’ultimo secondo (o anche un po’ dopo), gli strascichi delle polemiche per le scelte compiute (la localizzazione, l’acquisto delle aree, la governance, le vie d’acqua e i ritardi stessi) erano ancora protagonisti delle conversazioni, i visitatori giungevano in numeri inferiori a quelli sperati.
Il 25 giugno 2015 l’Unione Buddista Italiana insieme all’associazione Urbanzen organizzarono proprio nella Darsena da poco riaperta #lanottedellelanterne, una piccola cerimonia con cui lanciare un messaggio di pace. Gli organizzatori avevano portato con sé un migliaio di lanterne da varare, un numero importante considerato che i buddisti “registrati” in città erano circa cinquecento. Si presentarono ottantamila persone (Ottantamila!), effetto inatteso della promozione dell’evento sui social. Quasi nessuno vide le lanterne, anche considerato che i monaci avevano sottovalutato le correnti del Naviglio e il varo fu piuttosto difficoltoso, il traffico andò in tilt per tutta la notte in tutta quella parte di città, alcune bagnanti furono ripescate da un gommone della Polizia Locale, e alla mattina ci svegliammo tutti, perplessi, pensando: vuoi vedere che Milano esiste?!
Milano ha vissuto, negli ultimi anni, una rinascita difficile da negare e — al contempo — difficile da spiegare. Molti fattori, anche tra loro indipendenti e concisi temporalmente (grazie soprattutto a una efficace azione amministrativa, ma anche a una certa dose di fortuna), hanno permesso questo fenomeno, tanto più rilevante se visto nel contesto della crisi che ha fortemente segnato la nazione in questo stesso periodo. Tra questi fattori possiamo certamente annoverare l’Esposizione Universale, il cui ruolo di catalizzatore pare ormai indiscutibile nonostante la difficoltà nel definirne un oggettivo e condivisibile bilancio dei costi e dei benefici. Allo stesso modo occorre riconoscere il giusto ruolo alla conclusione di molte importanti trasformazioni avviate in altre epoche, trasformazioni il cui innegabile e provvidenziale apporto alla vitalità della città trascende il giudizio – a volte non clemente – che possiamo dare della loro qualità architettonica e urbana.
Oggi, dopo che una imprevedibile pandemia si è abbattuta su di noi mettendo in discussione abitudini e comportamenti, ci troviamo ad affrontare un futuro diverso, complesso e incerto. In questa fase Milano, come molte altre grandi città, sta affrontando un passaggio critico. Con la pandemia sono emersi con forza spietata i limiti del modello di sviluppo che ha sostenuto la crescita degli ultimi anni: la sproporzione tra reddito e costo della vita, il disequilibrio tra i territori, la monofunzionalità di alcuni quartieri, solo per citare i principali. D’altro canto rimangono ben radicate in molti milanesi (che lo sono, più che in ogni altra città italiana, per adozione e non per nascita) le ragioni che li avevano spinti a scegliere la città, questa città, per vivere almeno una fase della loro vita. Al contempo, a Milano, come altrove, la pandemia e le sue conseguenze sui nostri comportamenti ci ha fatto riscoprire, tra le altre cose, quanto sono preziosi gli spazi pubblici, quanto sia cruciale la qualità delle case che abitiamo, quanto sia complesso l’ambiente dove lavoriamo, quante siano le sfumature dello stare insieme delle popolazioni urbane. A tutto questo, credo, occorre oggi dare una risposta.
Come sapete, il Comune di Milano — una piccola città di 1.400.000 abitanti — è al centro di una Città Metropolitana che, con i confini assai arbitrari ereditati dalla vecchia Provincia secondo quanto previsto dalla legge 56/2014, conta circa tre milioni e mezzo di abitanti. Sappiamo bene che stabilire un confine alla conurbazione milanese è una missione impossibile: ragionevolmente però stiamo parlando di un territorio interdipendente abitato da almeno 5 milioni di abitanti, anche se alcuni arrivano a considerare un’area di influenza metropolitana di 6 o 8 milioni, a seconda delle diverse definizioni. Insomma, una grandissima città, ma forse una metropoli non poi così vasta. Soprattutto, un territorio che può e deve venire governato in maniera coordinata e complessa. Questo, fino a oggi, è avvenuto in modo parziale e insufficiente. Eppure, nella dimensione metropolitana albergano le cause di molte delle criticità della nostra città e, probabilmente, anche le relative soluzioni. Riscoprire questa dimensione e il suo governo, incidere efficacemente sull’equilibrio tra i suoi territori, sfruttarne i punti di forza e mitigarne le criticità è un passaggio ineludibile per qualsiasi ipotesi di sviluppo della nostra città.
Milano, come città e come metropoli, ha una grande tradizione di accoglienza. Non è mai stata una città facile, forse nemmeno ospitale, ma ha costruito — con un inevitabile mix di responsabilità e cinismo — la sua identità sulla stratificazione delle sue popolazioni. Questo è il suo segreto e la sua anima. Una città, però, per poter crescere, rimanere attrattiva, deve essere accogliente, inclusiva, equa. L’attenzione al costo della vita, e in particolare della casa, la cura dello spazio pubblico e della mobilità, le occasioni e il lavoro devono essere il cuore di una città giusta, capace di ospitare tutti, i più ricchi e i più poveri, chi è appena arrivato e chi è sempre stato qui, chi ce l’ha fatta e chi no. Non possiamo negare che l’immagine che ha accompagnato il successo della città negli ultimi anni, la retorica del supposto Modello Milano, ha appiattito la prospettiva su una dimensione di ricchezza e di successo. Noi sappiamo che Milano non è e non può essere (solo) questo. E in questa direzione, credo, dobbiamo continuare a lavorare, che di strada da fare ce n’è ancora molta.
Milano Moderna, Milano locomotiva del paese, Milano città europea sono stati e sono gli slogan che descrivono quello che sembra essere un destino ineludibile della nostra città. Ma ha ancora senso oggi parlare di Milano Moderna? La Milano Moderna è una città del passato o del futuro? Io credo che Milano debba imparare a trattare questa sua modernità in una prospettiva nuova e complessa. In architettura, per esempio, Milano Moderna è un asset che ereditiamo dal passato, riconosciuto internazionalmente e dalle notevoli prospettive. E allora dobbiamo chiederci: come possiamo promuovere e tutelare un patrimonio nato proprio dalla trasformazione? Continuando a trasformare – credo – e non immobilizzando la città, ma mettendo al centro proprio la valorizzazione di questo carattere, la su conoscenza, la qualità della trasformazione, il progetto. Per conservare non solo e non tanto il singolo edificio, quanto piuttosto un paesaggio urbano che stiamo riscoprendo.
Sono convinto che, se sapremo coltivare Milano come una piccola metropoli moderna, accogliente e bella — intendendo questi termini nel modo che ho provato a spiegare, — supereremo anche questa tempesta e potremo continuare a credere, magari sbagliandoci, che Milano esiste per davvero.
Grazie Paolo, hai risposto alla domanda che avevo in testa da tanto tempo……. su Milano, che adoro, che non è la mia città, che desidero e temo allo stesso tempo! Spero di vederti presto, avevo ricominciato a frequentare via della Moscova con regolarità, ma nelle due ultime settimane ho lasciato perdere, aspettiamo tempi migliori…
Resto nella mia Firenze, che mia non è, per la quale varrebbe una analoga analisi, ma non sono così brava come te!!!
Un caro saluto Beatrice