Originariamente pubblicato su Il Calibro
I miei affetti hanno fatto di me un frequentatore notturno e festivo dell’A4, temibilissima autostrada transpadana, a volte per piccoli tragitti, a volte per viaggi assai piu’ impegnativi. E chi segue Il Paolone del lunedì sa che i viaggi notturni sull’A4 hanno il non meno drammatico effetto collaterale di spingermi a scrivere post inutilmente esistenziali e fastidiosamente melensi. La sera prima di scrivere questo post sono tornato dall’ultimo scampolo di queste vacanze estive, come sempre con il buio, come sempre lungo l’A4; e questa volta pioveva. Preparatevi al peggio.
Ci sono alcuni giorni in cui Milano è bellissima: il cielo di un azzurro splendente e irreale rigato da nuvole bianche stese come pennellate, l’aria fresca che scende dalle montagne che sembrano così vicine e il sole caldo che ricorda il mare non poi così lontano. Ci sono alcuni giorni in cui Milano è bellissima, certe volte sono addirittura dieci in un anno, di solito per metà a maggio e per metà a settembre.
A me piacciono tantissimo quelli di settembre, e mi diverte molto osservare nella loro luce speciale la gente tornata dalle ferie.
Certo, le vacanze non sono più quelle di una volta, un po’ come le mezze stagioni: quasi nessuno fa più quelle belle villeggiature da due mesi e mezzo, che al ritorno non ti ricordi nemmeno più come si chiama il portinaio; in verità , quasi nessuno ha nemmeno più il portinaio. E ormai trovi negozi aperti anche a Ferragosto e mal ti colga se ti viene l’impavida tentazione di andare a far acquisti il giorno dell’Assunta in qualche grande magazzino per i mobili oltre il raccordo autostradale: lo feci alcuni anni fa e vi trovai più gente che sulla spiaggia di Rimini.
Ma nella mente dell’Italiano Vero le vacanze sono ancora come allora, con conseguente sindrome da rientro. E riconosci nei gesti innocenti la voglia di essere ancora altrove, la determinazione ostinata a rimanere aggrappati all’ultimo scampolo d’estate. Lo vedi nelle abbronzature esibite, negli infradito che sbucano dal vestitino elegante della giovane signora che si spettina con cura prima di entrare nel locale. Lo vedi dalla collanina di cuoio tamarra che si affaccia incongrua da sotto alla camicia con il monogramma e dai braccialetti brasiliani che non si sono rotti, lasciando intatta la speranza che il desiderio espresso sulla spiaggia di Ipanema (o di Celle Ligure, fa lo stesso) si realizzi davvero. Lo vedi nella coppia che passeggia a braccetto lungo la strada desolata, ondeggiando, cono gelato alla mano, tra le macchine parcheggiate sul marciapiede. Lo vedi dalle lingue che di nascosto cercano ancora sulle labbra il sapore del sale.
Io non sono mai stato un tipo da sapore di sale.
Da bambino, la mia fine dell’estate aveva l’odore umido di ciclamino dei boschi di faggio, il sapore appiccicaticcio delle BigBabol (lo so che e’ incredibile, ma ho controllato su wikipedia: si scriveva proprio così), il fremito di emozione delle candele romane sparate per la Cornabusa. E l’agitazione per la scuola che stava per cominciare.
Poi iniziano i ricordi delle vacanze settembrine con i miei genitori, fatte in zona Cesarini quando mia madre aveva finito di lavorare in colonia, insolito business della nostra famiglia. E la fine dell’estate era impregnata della struggente malinconia per qualche amore perduto, con il sapore acre ancora sulle labbra, dopo gli interminabili baci scambiati davanti ai falò di fine vacanza.
Più tardi, la fine dell’estate aveva l’odore un po’ rancido delle birrerie di citta’ e delle bancherelle di fritto della Festa dell’Unità, le lunghe sere passate esibendo incerte abbronzature, esotici talismani e fantasiosi racconti delle peripezie estive nella (non sempre) vana speranza di un’ultima conquista prima che il triste autunno ci sopraffacesse.
Oggi la fine dell’estate ha di nuovo l’odore dei ciclamini, il sapore delle cicche alla fragola, l’agitazione per la scuola che ricomincia.
E non conta se non siamo più bambini; non conta quanto ci piaccia il nostro lavoro, la nostra casa, la nostra città (a me, peraltro, non poco tutt’e tre); non conta quanto ci sia mancata la nostra normalità. Alla fine dell’estate la malinconia è un rito che no si può tradire e che con l’andare e il tornare ha poco a che vedere.
Perché il problema è che se l’estate sta finendo e un anno se ne va, sto diventando grande e lo sai che non mi va.
(L’estate sta finendo, La Bionda – Righi – Rota, un ineffabile Sergio Conforti alle tastiere, e tutta l’ingenuità del 1985)