Originariamente pubblicato su Il Calibro.
L’undici settembre millenovecentosettantrè non ero ancora nato. Non ho visto, quindi, allora, le immagini degli Hawker Hunter che bombardano il Palacio de La Moneda, non ho sentito il dottor Salvador Guillermo Allende Gossens che, chiuso nel palazzo sotto alle bombe, declamava su Radio Magallanes il suo ultimo, bellissimo discorso. Non ho sentito il lamento improvviso e straziante dei cileni (e dei libertari) di tutto il mondo.
L’undici settembre millenovecentosettantrè non ero ancora nato, ma quello che successe quel giorno in Cile segnò profondamente le coscienze e l’immaginario della generazione che mi avrebbe cresciuto. E quindi i miei.
Per esser figlio di sesantottini, la mia è stata un’educazione forse anomala. Più etica che politica. Più morale che ideologica. Più musicale che economica. Non c’erano bandiere rosse né falci e martello nella nostra casa piccolo borghese azzardatamente moderna, non c’erano tessere di partito né tomi Capitali. Ma c’erano romanzi, storie e film. E c’erano i dischi: dei Beatles, soprattutto, ma anche di Joan Baez, di Nanni Svampa e degli Inti Illimani.
Si narra di un bambino di pochi anni che, incerto nei suoi passi ma non nel suo eloquio, avendo sentito risuonare gli Inti Illimani dall’altoparlante, impose al responsabile di una festa di partito di paese di rimettere subito “La canzone del Presidente“, che era la sua preferita. Ovviamente, quel bambino ero io.
Si nuestra tierra nos pide, tenemos que ser nosotros los que levantemos Chile asi que a poner el hombro. Vamos a llevar las riendas de todos nuestros asuntos y que de una vez se entiendan hombre y mujer todos juntos.
L’undici settembre millenovecentosettantré non ero ancora nato, ma gli anni seguenti li vissi in un paese che si trovò a ospitare molti cileni in fuga da un governo che li perseguitava. Ricordo le manifestazioni, le proteste, i comizi, i racconti degli esuli rimasti nel nostro paese. E ricordo le canzoni.
Todos venganze a juntar tenemos a puerta abierta y la unidad popular es para todo el que quiera. Hecharemos fuera al yankee y su lenguaje siniestro con la unidad popular ahora somos gobierno!
L’undici settembre millenovecentosettantrè non ero ancora nato, ma nell’autunno del millenovecentoottantotto iniziavo baldanzoso a frequentare il Liceo, e un sabato mattina mi ritrovai in una manifestazione (la prima della mia vita) colorata e gioiosa che sosteneva da lontano i cileni impegnati nella campagna elettorale per il referendum destinato a chiudere definitivamente quegli anni orribili. Percorsi la gran parte del tragitto da piazza Cairoli a non-ricordo-piu’-dove dietro a un furgone azzurro rosso e bianco che trasmetteva canzoni cilene. Anche quella del Presidente.
La patria se vera grande con su tierra liberada porque tenemos la llave ahora la cosa marcha. Ya nadie puede quitarnos el derecho de ser libres y como seres humanos podremos vivir en Chile.
L’undici settembre millenovecentosettantrè non ero ancora nato. Conosco la storia, e sicuramente la conoscete anche voi, ma non so dirvi se quello di Allende fu un governo giusto. Non so dirvi se il Cile dell’Unidad Popular fosse un modello condivisibile, o esportabile. Non so come sarebbe andata a finire se Pinochet (con qualche aiutino esterno) non avesse preso il potere.
So però quello che successe nella lunga notte della dittatura, so quello che un intero continente dovette patire. E so anche che nelle teste e nei cuori di tanti cileni e di tanti cittadini del mondo c’era un sogno di giustizia sociale e di libertà che nulla aveva a che spartire con i totalitarismi sovietici e poco anche con il liberismo sfrenato che di li a poco si sarebbe affacciato al mondo.
Porque esta vez no se trata de cambiar un presidente, serà el pueblo quien construya un Chile bien diferente.
Non ho nostalgia per la Guerra Fredda, né per le dittature di qualsiasi latitudine o longitudine. Non ho nostalgia per la sterile contrapposizione ideologica, né per le mistificazioni e compromessi che questa esigeva. Non ho nostalgia per le ideologie che pensavano di poter ridurre l’uomo a numero, a classe, a razza o a mezzo di produzione.
Ma provo una profonda malinconia al pensiero che gli ideali che seppero sostenere l’azione politica di molti uomini e molte donne siano ormai un pallido ricordo e che la politica si sia ridotta a una tale parodia di se stessa da legittimare perfino l’esistenza di un’antipolitica, tomba di ogni desiderio di un mondo migliore. Ma, lo sapete, sono un inguaribile ottimista, e allora non mi rimane che cantare: