Work is in the air (everywhere I look around)

A partire dagli anni novanta si è consolidata nella letteratura di diverse discipline una ricostruzione dei mutamenti della geografia fisica e sociale avvenuti in conseguenza dell’affermarsi dell’Era dell’Informazione[1]. Abbiamo acquisito come la potenziale indifferenza localizzativa generata dalla connessione universale dei territori non abbia portato a forme diffuse di delocalizzazione del lavoro intellettuale[2], quanto piuttosto a una densificazione delle pratiche d’uso[3] (Castells e Hall , 1994), riscontrabile soprattuto per alcuni settori della società[4]. È corretto, però, individuare nella connettività diffusa l’opportunità di superare l’identificazione fordista della produzione con un (unico) luogo specificatamente deputato al lavoro, portando parti sempre più ampie della società verso un approccio nomade o poligamico all’attività lavorativa. Oggi, quindi, parallelamente ai molti ragionamenti possibili sul mutare delle caratteristiche fisiche e immateriali degli spazi tradizionali del lavoro, occorre interrogarsi sulle forme e i modi di un lavorare pervasivo e diffuso (nel tempo e nello spazio) che caratterizza alcuni settori chiave della società. La casa, lo spazio pubblico, gli esercizi commerciali, i mezzi di trasporto: quasi ogni luogo potrebbe oggi essere considerato un potenziale spazio della produzione. 

Quali sono i requisiti tecnici, morfologici, gestionali, simbolici che queste nuove pratiche proiettano sugli spazi consolidati della nostra quotidianità? Esistono strumentazioni progettuali, normative, disciplinari adeguate ad affrontare questo tema? Quali sono le interazioni tra questi nuovi modi d’uso e le permanenze dei sistemi urbani?

In questo articolo ci proponiamo di descrivere e catalogare i processi, spontanei o progettati, che stanno conducendo gli spazi tradizionali verso questi nuovi usi, evidenziando successi e criticità, spesso destinati a importanti ripercussioni sulla qualità della vita e sulla capacità economica delle città e sullo stesso paesaggio urbano.

Le forme e i luoghi del lavoro fuori sede

In quali luoghi si concentra la produzione, quando è svolta all’esterno delle sedi tradizionali? Quali sono le tipologie di usi che possiamo identificare? Un’analisi della letteratura internazionale, particolarmente consolidata nella geografia e nella sociologia, associata a una attenta osservazione delle pratiche e alla lettura trasversale delle principali macro-analisi della città e della società creativa, ci permettono di ipotizzare alcune categorie da mettere alla base della nostra analisi.

Homework

L’aspetto forse più studiato della de-localizzazione dei luoghi della produzione nella Società dell’Informazione, è quello del lavoro svolto a casa[5].  L’iniziale diffusione di queste pratiche portò a formulare ipotesi rivoluzionarie sul radicale cambiamento della dimensione territoriale del lavoro, arrivando fin anche a teorizzare la morte della città tradizionale a favore di un insediarsi diffuso e a bassa densità. Come mostrato da Manuel Castells (2001) con chiarezza e abbondanza di elementi. e come declinato in molti dei contributi al testo di Graham (2004) sulle città, questo fenomeno non è mai avvenuto: il cottage elettronico di Jeremy Rifkin (2000) non è mai arrivato. Ciò nonostante, la pratica di svolgere parte del proprio lavoro tra le mura domestiche è sempre più diffusa, soprattutto tra le professioni intellettuali; non si tratta, però, di insediare un frammento del proprio ufficio tra gli ambienti di casa, secondo l’abusato principio del SOHO (small office home office), quanto piuttosto di esercitare temporaneamente la propria professione all’interno dell’ambiente domestico. Dal punto di vista delle pratiche d’uso, questo spostamento si traduce nell’abbandono della definizione di spazi specifici adibiti al lavoro verso un uso contaminato e ibrido di arredi e superfici. 

Le deux magots

La possibilità di ottenere una connessione wireless di buona qualità in locali pubblici ed esercizi commerciali definisce una specifica tipologia di luoghi del lavoro — bar, caffè, ristoranti — che potremmo identificare come semi-pubblici[6]. Come evidenziato, tra gli altri, da Jürgen Habermas (1989), questi luoghi hanno svolto un ruolo chiave nella formazione della società civile moderna. Anche se molti studiosi, tra cui lo stesso Habermas, hanno teorizzato un progressivo declino di questa tipologia di spazi urbani, pur confermandone l’importanza (Oldenburg, 1989), nell’immagine contemporanea, a volte superficiale, del lavoratore intellettuale o creativo i caffè sono tornati prepotentemente come luogo di produzione e di incontro, dove il laptop ha sostituito il carnet di appunti e un “Caffè Latte” ha sostituito bevande oggi meno presentabili pubblicamente. La letteratura sull’uso di questi spazi è ancora abbastanza limitata, anche se non mancano analisi complete e approfondite, come quelle svolte negli Stati Uniti da Keith N. Hampton (Hampton e Gupta, 2008 e Hampton et al., 2010). Proprio a partire da questi lavori è possibile ipotizzare tanto la crescente rilevanza quantitativa di questi usi quanto la modalità dei comportamenti. Rispetto alle pratiche d’uso, ci interessa qui evidenziare in particolare il delicato equilibrio che si crea tra la necessità di definire di uno spazio di lavoro privato e protetto all’interno dell’ambiente caotico di un locale pubblico e il piacere di uno scambio, anche casuale e di serendipità, con il mondo esterno.

Tra le nuvole

A ulteriore smentita delle prime previsioni sull’indifferenza localizzativa generata dalla diffusione delle comunicazioni telematiche, la società dell’informazione ha visto uno straordinario aumento degli spostamenti legati al lavoro (Castells, 1996 e 2001), specialmente per le categorie sociali centrali per l’analisi qui presentata. A differenza, però, delle pratiche lavorative nei luoghi semi-pubblici, normalmente attuate per scelta deliberata da parte dei soggetti, il lavoro sui mezzi di trasporto diventa la pratica obbligata per ottimizzare il tempo ed evitare eccessivi sprechi. Conseguentemente, in queste situazioni, la produzione di un setting corretto e efficiente diventa l’obbiettivo principale del lavoratori in viaggio[7]. L’accresciuta concorrenza tra i principali mezzi di trasporto dedicati a questo tipo di utenza (compagnie aeree tradizionali e low-cost, treni ad alta velocità, ecc.) ha portato a una progressiva esplicitazione, anche commerciale, delle prestazioni dei diversi vettori da questo punto di vista, identificando via via in diversi elementi — la ricchezza di spazio, la qualità della connessione, il silenzio, la possibilità di svolgere riunioni — la caratteristica chiave in grado di attrarre gli utenti interessati a lavorare mentre viaggiano.

En plein air

La mostra Toward the Sentient City, curata nel 2009 per la the Architectural League of New York da Mark Shepard (Shepard, 2011), rifletteva sui diversi fenomeni urbani legati alla diffusione delle tecnologie di comunicazione nel tessuto della città. Tra i progetti presentati, c’era il Breakout! festival[8], organizzazione dedicata a promuovere occasioni di lavoro nello spazio pubblico, la cui esperienza affonda le radici nel coworking movement e che, coerentemente con questa origine, enfatizza gli aspetti collaborativi e di intelligenza collettiva e cross fertilization del lavoro svolto nello spazio pubblico. È significativo, in questo senso, osservare come, tra i dispositivi messi a disposizione nelle sessioni di Breakout, solo una piccola parte siano di tipo tecnico e materiale (corrente elettrica, connessione wireless, tavoli e sedie) e per la maggior parte siano di tipo metodologico e procedurale (portali per la gestione, guida alla facilitazione del processo, ecc.). Anche senza idealizzare la possibilità di collaborazione, é comunque ormai chiaro lo straordinario potenziale lavorativo degli spazi pubblici: parchi, piazze, zone pedonali ma anche waterfront, spiagge, marine diventano luoghi della produzione purché dotate di un minimo di infrastrutturazione e accoglienti dal punto di vista fisico e gestionale.

Il calcio Balilla in garage

Il fenomeno forse più suggestivo della progressiva colonizzazione degli spazi non-lavorativi da parte dei lavoratori, specialmente legati alla Creative Class, riguarda il processo di auto-colonizzazione delle strutture tradizionali. Nelle progressive ondate di aziende legate alla così detta New Economy, dalle prime start up informatiche degli anni Ottanta, al trionfo delle DotCom, all’era di Google, della Pixar e della Apple, nei luoghi del lavoro si è andata imponendo una nuova estetica (e, in parte, pratica) dello spazio. L’organizzazione del lavoro svolto in sedi improvvisate (i garage della suburbia californiana, i campus universitari, le caffetterie e i club) è diventato il modello per strutturare anche la vita aziendale. Pur essendo, a rigore, questa pratica differente da quelle oggetto di questa analisi, la sua diffusione è forse la più chiara testimonianza del cambiamento di paradigma avvenuto, in alcuni settori, in questi anni.

L’uso improprio dello spazio

Prima di procedere all’analisi dei dispositivi spaziali effettivamente in grado di rendere un luogo ospitale per queste forme d’uso, e quindi attrattivo per chi le pratica, occorre riflettere su quali modalità assumano — e di quali spazi necessitino — le pratiche d’uso di cui stiamo trattando. L’ipotesi da cui muoveremo potrebbe risultare azzardata, ma scaturisce da indagini svolte da punti di vista anche molto diversi e pare suffragata tanto dalla letteratura quanto dall’osservazione empirica. Ritengo si possa chiaramente evidenziare come esista una condizione specifica che si verifica ogni volta che uno spazio viene utilizzato per svolgere una funzione difforme da quelle previste e credo si possa argomentare altrettanto convincentemente come in queste situazioni l’uomo tenda a mettere in atto le medesime strategie, indipendentemente tanto dalla funzione esercitata quanto dal luogo provvisoriamente ospite.

Pratiche disfunzionali

Convenzionalmente, chiameremo disfunzionale, in un uso probabilmente non corretto ma credo efficace del termine, tutte quelle situazioni in cui una persona utilizza un luogo (una architettura) per una funzione assolutamente non prevista. Non si tratta quindi di indagare la varietà degli usi di uno spazio, ma proprio quelle funzioni che, in quel luogo, non dovrebbero avere domicilio. L’indagine su queste pratiche è stata condotta, negli anni, su diversi fronti. 

Esiste, per esempio, una letteratura abbastanza ampia e consolidata sull’abitare in luoghi non residenziali. Il loft living è stato oggetto, a partire dai primi anni ottanta (Roddewig, 1981; Zukin, 1982), di un intenso lavoro analitico e di molti testi. Seppur la maggior parte di questi si concentri sugli aspetti economici e sociologici del fenomeno, una loro accorta rilettura (e una osservazione delle immagini che contengono) permette di definire un quadro abbastanza preciso delle modalità d’uso e di occupazione dello spazio degli abitanti dei loft

Altrettanto ricca è la letteratura rispetto al tema dell’abitare abusivo dello spazio pubblico. In questo senso, forse, i testi più significativi sono quelli che analizzano le pratiche messe in atto per contrastare la presenza di homeless, o comunque di abitanti informali non graditi, nello spazio urbano (Davis, 1990). In questi testi le pratiche di occupazione dello spazio messe in atto dagli abitanti disfunzionali emergono attraverso la meticolosa definizione dei dispositivi spaziali escogitati per impedirlo o limitarlo.

Esiste poi un’ampia letteratura sulle pratiche moderne di nomadismo, oppure sull’abitare in condizioni estreme o inospitali, sulla temporaneità o sulla convivenza tra pratiche culturali e spaziali differenti.

Strategia di occupazione dello spazio

In tutte queste pratiche, alcune strategie sembrano permanere con grande evidenza. L’utilizzo disfunzionale dello spazio necessità di alcune azioni fondamentali senza le quali risulta impossibile svolgere liberamente e efficacemente la funzione desiderata. Potremmo raggruppare tali azioni in tre linee principali: localizzazione, connessione e arredamento.

In primo luogo, apprestandoci a insediarci in un luogo per svolgere una funzione non prevista, tendiamo a scegliere con grande cura la localizzazione più appropriata. Tale scelta segue solo parzialmente la ricerca di condizioni oggettive di qualità ambientale connesse con lo svolgimento della funzione stessa (condizione di luce, temperatura, rumore). Più probabilmente eleggeremo la nostra posizione ideale attraverso un’azione topologica, collocandoci alla periferia degli usi previsti, abitando il margine. Verificheremo poi di poterci connettere alle infrastrutture necessarie alla funzione che ci apprestiamo a esercitare (acqua, corrente elettrica, rete). Normalmente questa verifica vene fatta solo a posteriori della scelta localizzativa iniziale, che viene rimessa in discussione solo se la connessione infrastrutturale risulta impossibile. In fine, arrediamo lo spazio che intendiamo utilizzare collocando un numero spesso sovrabbondante di oggetti, la cui necessità per le azioni che ci apprestiamo a compiere è molto vaga, ma la cui presenza è fondamentale nella costruzione di un ambiente accogliente. L’insieme di queste azioni sostiene e definisce il nostro stato di utenti disfunzionali, sia che si tratti di dormire all’addiaccio in una pubblica piazza che di mangiare in un parco, sia che la nostra intenzione sia insediarci temporaneamente in una radura che di scrivere un paper in caffetteria.

Il lavoro in ogni luogo

Acquisito, quindi, come l’uso di spazi diversi dal luogo di lavoro tradizionale per lo svolgimento di parte dell’attività lavorativa di alcuni importanti strati della società contemporanea sia un fenomeno consolidato e, in una certa misura, auspicabile e che tale eventualità sia resa possibile (o incentivata) dalla facilitazione di pratiche adatte allo svolgimento di azioni disfunzionali all’interno dei diversi tipi di spazio, concluderemo evidenziando alcune linee di progetto e gestione rivolte alla massimizzazione del carattere ospitale degli spazi rispetto all’eventuale utenza lavorativa.

I pre-requisiti tecnici

Un primo tema rispetto alla possibilità di un uso lavorativo degli spazi, è legato alla loro dotazione tecnologica. La questione, apparentemente ovvia, comporta però alcune criticità considerevoli. Se da un lato pare priva di implicazioni complesse la necessità di dotare gli spazi di quanto tecnologicamente richiesto per poter lavorare, ad uno sguardo approfondito emergono alcune evidenti criticità. La più seria riguarda l’obsolescenza e l’interoperabilità delle tecnologie e degli approcci. Pensiamo per esempio, al tema della connettività in rete: a partire dalla sua comparsa nelle università e nei siti militari americani nella metà degli anni settanta, Internet ha mantenuto una relativa stabilità di tecnologie e di protocolli; ciò nonostante, gli importanti sforzi tecnici ed economici attuati negli anni per cablare gli edifici hanno spesso subito un’impietosa obsolescenza[9]. Volendo, quindi, ragionare sugli investimenti necessari a favorire un uso lavorativo degli spazi, occorre concentrarsi sulla flessibilità, scalabilità e sostituibilità dei sistemi, mantenendo un altissimo livello di attenzione analitica sui fenomeni in corso ed evitando adesioni eccessivamente zelanti a modelli tecnici o organizzativi calati dall’alto e sostenuti da singoli portatori d’interesse.

Effetti collaterali

Dal punto di vista delle politiche e degli aspetti gestionali e amministrativi, la relativa omogeneità delle pratiche di appropriazione disfunzionale dello spazio rende complessa e delicata la posizione di decisori e amministratori, che spesso si trovano, involontariamente, a contrastare alcune pratiche nella necessità di combatterne altre. La maggior parte dei dispositivi anti-homeless adottati dalle amministrazioni negli spazi pubblici, per esempio, hanno avuto la conseguenza di dissuadere qualunque uso disfunzionale dello spazio pubblico, anche quelli più auspicabili o inoffensivi. Altrettanto si potrebbe dire dell’eccesso normativo che caratterizza molti spazi pubblici o semi pubblici; in questo campo, gli attori privati, forti forse di una maggior razionalità decisionale e della possibilità di controllo sullo spazio, sono spesso risultati più efficaci. Anche la compatibilità tra i diversi usi, tradizionali o disfunzionali, che un medesimo spazio si trova ad ospitare diacronicamente o sincronicamente, è oggetto di molte criticità. In generale, dal punto di vista della pianificazione e della gestione, favorire l’uso disfunzionale degli spazi ha a che fare con un adeguato e ben gestito grado di libertà, principio in fondo alla base dia qualunque spazio condiviso di qualità.

Progettare spazi ospitali

Anche il progetto fisico dei luoghi può essere in parte conformato dalla volontà di risultare ospitale per gli utenti disfunzionali. In un processo complesso ma possibile di reverse engineering svolto a partire dai comportamenti sopra descritti, possiamo identificare alcune strategie da sovrapporre ai normali percorsi e metodi di progetto per incrementare l’ospitalità degli spazi esito dell’intervento. 

In primo luogo risulta efficace lavorare sul tema del perimetro e della soglia dei luoghi, accentuando e attrezzando quella parte periferica dello spazio che è localizzazione prediletta di questa tipologia di utenti. Molti dispositivi sono stati utilizzati nelle diverse epoche per costruire ambiti di questo tipo, tanto nell’architettura alta e in quella corrente quanto nell’edificazione storica o spontanea. Finestre arredate, nicchie, panche perimetrali, fasce di protezione sono dispositivi diffusi nel progetto, efficacemente adottati per l’uso disfunzionale degli spazi e dotati di una specifica storia disciplinare cui attingere.

La collocazione delle infrastrutture necessarie al lavoro, premesso quanto sopra evidenziato rispetto alla rapida obsolescenza e alla necessaria interoperabilità delle tecnologie prescelte, è una seconda operazione fondamentale per rendere i luoghi efficacemente disponibili per questo tipo di usi. A parità di attrattività e adeguatezza morfologica, risulteranno vincenti le localizzazioni che permetteranno una facile, immediata e qualitativa connessione (o vicinanza) a tutte le infrastrutture necessarie allo svolgimento dell’attività lavorativa.

In fine, un’adeguata predisposizione all’arredabilità e all’accoglienza, la presenza di superfici e materiali appropriati e di forme ospitali completano l’articolazione di una strategia progettuale indirizzata alla realizzazione di luoghi appetibili per l’utilizzo lavorativo temporaneo.

In conclusione, possiamo affermare che le pratiche lavorative diffuse e temporanee siano uno degli aspetti fondamentali della Società dell’Informazione, per come essa si sta consolidando in questi anni nella cultura occidentale. Si tratta di un fenomeno fortemente legato agli aspetti di urbanità e di densità (o intensità) degli spazi, parte di quella rinascita della città che sembra segnare con sempre maggior forza questo primo scorcio di millennio (Glaeser, 2011). Un progetto architettonico e gestionale dei luoghi che favorisca questi usi è facilmente perseguibile, anche se implica una disponibilità agli usi disfunzionali in generale, spesso in controtendenza con la privatizzazione e sovra-protezione degli spazi che ha caratterizzato gli ultimi decenni della vita urbana occidentale. D’altro canto, nel quadro di una più generale opportunità per le città, all’interno della competizione globale delle aree urbane, a risultare attrattive, specialmente per i settori più vivaci e dinamici della popolazione, la messa in campo di queste strategie risulta fondamentale ed estremamente conveniente.

Originariamente pubblicato in: Sara Marini, Alberto Bertagna, Francesco Gastaldi (a cura di) Architettura, città, società. Il progetto degli spazi del lavoro, Venezia, Università IUAV. 

Note

[1] Sa fa qui riferimento in particolare agli studi di Manuel Castells (Castells, 1996; Castells 1997; Castells, 1998).

[2] La chiave interpretativa che ruota intorno al concetto di Creative Class (Florida, 2000; Landry, 2000; Florida 2002; Florida 2003; Florida e Tinagli 2004) ha ulteriormente consolidato l’ipotesi, valida soprattutto nei sistemi territoriali occidentali, che il centro della produzione intellettuale più avanzata, e quindi il luogo del lavoro per elezione dell’Era dell’Informazione, fossero le città.

[2] Con riferimento all’influenza che questi mutamenti hanno avuto con gli aspetti più propriamente legati all’abitare sono di grande interesse alcune riflessioni di William Mitchell. Nel testo E-topia (1999) Mitchell riprende e rielabora, a quasi cinque anni di distanza, gli argomenti trattati nel suo City of Bits (1995) stravolgendo ancora una volta luoghi comuni e idee consolidate. Uno dei luoghi comuni più diffusi, ad esempio, è che grazie alle possibilità offerte da Internet e dal telelavoro le città si dissolveranno per essere sostituite da amorfe agglomerazioni suburbane; Mitchell evidenzia però che “libertà di localizzazione non significa indifferenza insediativa”(Mitchell, 1999),

[3] È inutile nascondersi come le parti più superficiali e ottimistiche di queste teorie abbiano accusato il colpo della straordinaria crisi economica che l’Occidente sta attraversando; la maggior parte dei dati su cui si basavano questi ragionamenti rimangono, però, tuttora validi, anche se in parte ridimensionati, e la correttezza complessiva della ricostruzione non pare in discussione.

[4] A partire da metà degli anni ottanta, la diffusione degli apparecchi telefax di costo modesto, avvenuta, ha aperto la possibilità a molti professionisti di svolgere il lavoro dalla propria residenza; la progressiva diffusione di Personal Computer e di connessioni Internet ha ulteriormente e straordinariamente esteso questa possibilità, includendo anche i dipendenti ai vari livelli di grandi aziende, che potevano rimanere connessi con la propria struttura senza necessariamente recarvisi fisicamente.

[5] La definizione di questi spazi, cruciali nell’analisi del grado di urbanità dei luoghi, è di una certa complessità, dovendosi confrontare con aspetti legati alla proprietà, all’accessibilità, agli orari ecc.. Si può, almeno parzialmente, fare riferimento all’idea di spazi terzi, come teorizzata da Oldenburg (1989), anche se non si tratterebbe di una soluzione esaustiva. In ogni caso, per questa trattazione, non è probabilmente necessario precisare eccessivamente la perimetrazione di questa tipologia di spazi, affidandosi a una certa evidenza empirica.

[6] La possibilità di lavorare durante i viaggi e, più in generale, di approfittare proficuamente del tempo trascorso sui mezzi di trasporto,  è stata oggetto di diverse analisi. Si veda, per esempio Lyonsa e Urryb (2005).

[7] Nato nel Lower Manhattan, ma ormai di discreta diffusione, il Breakout! festival parte da una semplice domanda: cosa succederebbe se considerassimo tutta la città un luogo di lavoro?

[8] La sola evoluzione dei mezzi fisici di trasmissione all’interno di reti Ethernet ha reso necessario la sostituzione di cavi e dispositivi in tempi relativamente brevi; successivamente, l’introduzione della trasmissione wireless dei dati ha reso improvvisamente superflui gli sforzi fatti per cablare fisicamente. Oggi la trasmissione “generica” di dati mediante le reti telefoniche mobili ad alta capacità farebbe presupporre un superamento, per questi usi, anche del concetto di access point.

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