Urban Housing | Urban Design

Gli spazi sociali della residenza come catalizzatori di urbanità

In questo testo proverò ad argomentare come la residenza, se correttamente concepita e realizzata, possa essere un importante elemento catalizzatore del processo di significazione urbana nei nuovi quartieri di espansione interna della città. L’occasione entro cui si sviluppano le osservazioni qui riportate è rappresentata dall’attività didattica e di ricerca svolta presso la Facoltà di Architettura Civile del Politecnico di Milano negli ultimi anni e, in particolare, dalle esperienze e dai ragionamenti maturati intorno al tema del riuso delle aree degli scali ferroviari urbani milanesi: in un contesto generale di auspicabile riduzione del consumo di suolo e di conseguente densificazione del tessuto urbano esistente, queste aree rappresentano probabilmente l’ultima (e, in qualche modo, la prima) occasione per Milano di progettare ampie porzioni urbane secondo obiettivi e strategie ben definite[1]. Nel ragionare sugli edifici residenziali urbani, tratterò, in particolare, degli spazi sociali, intendendo con questo termine tutti gli spazi a proprietà condivisa e a destinazione non strettamente residenziale che possono essere inclusi negli organismi residenziali[2].

Per descrivere il ruolo degli edifici residenziali nel disegno urbano, ho scelto la metafora del catalizzatore[3]. L’ipotesi qui proposta è che gli edifici urbani caratterizzati da uno spiccato mix funzionale, dalla presenza di diffusi spazi di transizione tra pubblico e privato e da accurati elementi di interfaccia con la città possano, insieme a un disegno urbano adeguato e a un accorto progetto degli spazi pubblici, portare alla realizzazione di interventi fortemente urbani, coerenti con la città consolidata e allo stesso tempo portatori di tutte le istanze dell’abitare urbano contemporaneo. Intendo quindi indagare le potenzialità di edifici che ampliano gli spazi ibridi al loro interno per migliorare la qualità e l’efficienza della loro interfaccia urbana, senza perdere la natura intrinseca di edifici residenziali urbani. 

Quella dell’edifico residenziale urbano così inteso, è una forma edilizia (se fossimo altrove potremmo dire: un tipo) che percorre tutta la storia dell’architettura e della città, trovando solo in certi momenti una formalizzazione teorica, ma non di meno rimanendo protagonista del tessuto urbano. Attraverso i mutamenti della città e dell’abitare non è difficile rintracciare il permanere di sistemi edilizi di cui la residenza collettiva è il materiale funzionale principale ma che ospitano molte e variate funzioni e che fanno del rapporto sinergico con la città il loro punto di forza. Alla base di questi edifici c’è, in modo più o meno esplicito e cosciente, l’accettazione del carattere collaborativo dell’abitare urbano e dell’imprescindibilità del ruolo pubblico dell’edilizia privata.

In relazione al secondo aspetto, senza entrare in un argomento assai interessante e complesso ma relativamente autonomo a quello qui trattato, mi preme ricordare come l’edificio residenziale urbano dovrebbe sempre collocarsi nella città secondo la logica per cui “ogni organismo privato trae un vantaggio notevole dall’appartenenza alla città: è un frutto che esiste perché c’è l’albero. Più che situarsi sull’albero-città, da esso germina e trae nutrimento”[4]. Questo atteggiamento porta a importanti conseguenze tanto sul piano compositivo, formale e linguistico, quanto su quello funzionale.

Per quanto concerne invece gli aspetti specifici del singolo edificio (o insieme di edifici), sia dal punto di vista della forma che da quello del programma, esiste una consolidata tradizione moderna di interpretazione degli aspetti collaborativi dell’abitare urbano. Il riferimento proposto, nella ricerca e nella progettazione moderna e contemporanea, è quindi il social housing, il cohousing urbano, l’abitare collaborativo. Una tradizione che affonda le sue radici nella nascita stessa dell’abitare urbano moderno, e che pone tra i suoi obiettivi la mediazione tra le nuove forme della città e la dimensione umana. Ma anche, e parallelamente, la tradizione dei grandi edifici urbani moderni, multifunzionali, complessi, articolati, ma in fine fortemente ancorati alla loro naturale dimensione di edifici residenziali. Edifici che, come un catalizzatore, partecipano della formazione dell’urbanità senza modificare la loro natura.

In questa logica appare naturale accomunare edifici e progetti molto differenti per comprendere la modalità di relazione con la città e la potenzialità di catalizzare l’urbanità. Cosa hanno in comune le Case Operaie costruite a Milano nel 1906 dalla Società Umanitaria su progetto di un giovane e ambizioso Giovanni Broglio[5] e i lussuosi co-ops buildings realizzati da Philip Hubert pochi decenni prima a Manhattan[6]? Cosa accomuna il complesso programma funzionale proposto da Fondazione Housing Sociale come base per i concorsi di progettazione di social housing a Milano[7] o lo schema di ideal mansion block proposto da Tyler Brûlé e Gaku Nakagawa su Monocle[8]?

L’indagine che ho sviluppato in questi anni, condotta principalmente attraverso l’analisi di realizzazioni di particolare qualità nel panorama contemporaneo europeo[9], ha permesso di identificare alcuni dispositivi programmatici e progettuali che sembrano incarnare in maniera convincente i principi sopra esposti. Li elencherò qui brevemente e schematicamente,  senza pretesa ne di esaustività ne di sistematicità, rinviando sia all’analisi della casistica citata che agli esiti della sperimentazione didattica una valutazione più completa. La logica è quella, praticata quotidianamente sia come didatti che come progettisti, di costruire provvisorie ma efficaci “cassette degli attrezzi” per affrontare la complessità del progetto di residenza urbana contemporanea.

Dal punto di vista del programma, negli edifici analizzati che meglio interpretano  il carattere di urbanità e che meglio hanno svolto il loro ruolo di catalizzatori, emergono con chiarezza tre tendenze, anche se non sempre compresenti: il mix funzionale, il mix sociale degli abitanti e la presenza di servizi e spazi comuni. Dal punto di vista delle scelte compositive e progettuali, alcuni aspetti appaiono particolarmente strategici: la soluzione di attacco a terra e il rapporto con il disegno dello spazio pubblico, il rapporto tra superficie abitata e volume urbano (con particolare riferimento alla presenza di spazi aperti privati o comuni), i sistemi di ingresso e di percorrenze interna (sia orizzontale che verticale), la definizione linguistica e tecnologica dell’involucro.

La progettazione di complessi programmi funzionali pare seguire strategie compositive assai differenti, che si potrebbero polarizzare sugli opposti estremi dell’integrazione formale (come nel caso del Centrum.odorf di Froetscher Lichtenwagner a Innsbruck) o dell’estetizzazione della multifunzionalità (per esempio nell’edificio Compact City di BUSarchitektur a Vienna). Ciò che sembra unire tutti i tentativi di maggior successo è una forte adesione alla realtà e un accurato studio della fattibilità economica della proposta, superando tabù politico sociali tipici degli anni Settanta e Ottanta (per esempio, entrambi i casi citati contengono un supermercato) e spesso in assenza di un approfondimento adeguato da parte della disciplina ufficiale.

Al contrario, la presenza di abitanti di generazioni, caratteristiche socio-economiche e tipologie famigliari differenti è da tempo oggetto dell’analisi e della manualistica nel settore; lasciando alle politiche di finanziamento e assegnazione la fattibilità di questi mix, rimane la riflessione delle sue conseguenze architettoniche. La letteratura ha sempre teso a evidenziare gli aspetti di varietà tipologica che conseguono alla presenza di differenti tipologie di utenti. A mio parere, un’analisi accurata delle realizzazioni più riuscite da questo punto di vista, soprattutto osservandone le pratiche d’uso nel tempo, porta a dare molto più peso agli spazi di distribuzione (ingressi, androni, cortili, ballatoi e così via), che in questi casi diventano veri e propri luoghi di mediazione e compensazione, assumendo su di sé la quotidiana fatica del convivere (esempio di un certo interesse in questo senso è l’intervento Südliche Furth di Agirbas & Wienstroer a Neuss). 

Südliche Furth, Agirbas & Wienstroer, Neuss, 2009.

A essi si aggiungono, nei casi più interessanti, vasti assortimenti di spazi comuni e di servizi all’abitare: dal deposito per passeggini e biciclette alla lavanderia comune, dalla sala riunioni alla terrazza, alla piscina, alla palestra (un riferimento di benchmark da questo punto di vista è la Sargfabrik di BKK2 a Vienna). Questi spazi paiono compiere la propria funzione aggregante tanto più sono connessi, spazialmente e visivamente, con la circolazione interna degli edifici. Vetrate, finestre interne, attraversamenti, doppie altezze, costruiscono una sorta di paesaggio urbano interno agli edifici che garantisce l’uso e la cura di questi spazi nel tempo. 

Spesso sono essi stessi a farsi carico dell’attacco a terra degli edifici, in una occupazione per scatole vetrate del Pilotis lecorbuseriano (come, per esempio, nell’edificio di Elsa Prochazka al Karrée St. Marx di Vienna). In alternativa possiamo trovare al piano terra degli edifici più interessanti parti commerciali, la stessa residenza o spazi aperti all’uso pubblico (un edifico che esplora con successo le diverse possibilità di attacco a terra è quello realizzato dagli S333 nel Ciboga Terrain di Groningen). Ciò che sicuramente pregiudica il corretto inserimento dei progetti nel tessuto urbano è la realizzazione di piani terra infrastrutturali, contenenti parcheggi, cantine o altre funzioni di servizio. 

Karree St. Marx – Bauplatz C, Elsa Prochazka, Wien, 2010. foto: Paolo Mazzoleni 

In fine, con una forzatura concettuale che mi sembra però necessaria e opportuna, potremmo considerare una forma di spazio sociale la sottile membrana che ormai avvolge ogni edificio residenziale. Sia esso la sottile lama d’aria di una facciata ventilata, la geometra variabile di un dispositivo di chiusura o un più profondo e articolato sistema di logge e balconi, l’involucro dell’edificio residenziale urbano è la prima e più caratterizzante delle interfacce con lo spazio condiviso della città. In esso si sintetizza il linguaggio dell’architettura, l’interpretazione degli stili di vita, la rappresentazione del privato verso il pubblico.

Carabanchel Housing, Foreign Office Architects, Madrid, 2007.

In (provvisoria) conclusione, ritengo che il progetto di residenza urbana possa e debba porre al proprio centro gli spazi sociali, investire su di essi risorse compositive e materiali, mettere a punto strategie e forme adeguate. L’obiettivo è accompagnare gli abitanti, attraverso dispositivi di interfaccia complessi, delicati ed efficienti, verso le nuove forme di città in cui si troveranno a vivere, coniugando, non senza una certa ambizione, l’inevitabile mutare di forme e requisiti del disegno urbano e la solida tradizione di valori urbani fondamento della qualità della vita in città.

Originariamente pubblicato in: Laura Montedoro (a cura di), A vision for Milan, Quodlibet, Macerata 2011.


[1] Negli ultimi decenni la maggior parte della residenza a Milano è stata costruita in variante alla pianificazione urbanistica vigente attraverso grandi piani di recupero urbano, dove la forma insediativa nasceva quasi sempre da schemi urbani semplicistici, con prevalenza di opzioni a edilizia aperta; non già l’edilizia aperta radicale e razionale immaginata dal Movimento Moderno, né l’aggiornamento ragionato delle forme urbane che andava imponendosi in altri Paesi europei, quanto, piuttosto, un vocabolario o, meglio, un alfabeto di corpi edilizi (le I, le L, le C e le U fino a improbabili S o X) giustapposti meccanicamente su un suolo prevalentemente verde. Gli edifici stessi, che compiono in genere più che discretamente i loro obiettivi prestazionali e tecnici, trascurano però quasi sempre gli elementari requisiti di rapporto con la città. Con alcune lodevoli eccezioni, occorre accettare il sostanziale fallimento di questa stagione dal punto di vista della capacità di generare urbanità, pur non negando la validità di alcuni risultati quantitativi raggiunti in termini di dotazioni di verde e servizi oltre che, ovviamente, di soddisfacimento della domanda di residenza. In questo senso la riconversione dei grandi scali ferroviari presenti all’interno del tessuto urbano di Milano rappresenta un’occasione straordinaria per ripensare molte delle strategie fin qui messe in campo.

[2] Esiste una certa confusione nell’individuazione e nella nomenclatura di questi spazi: a seconda che prevalga l’aspetto funzionale, normativo, architettonico o altri ancora, si parla di spazi comuni o semi-pubblici, di servizi alla residenza o di funzioni compatibili, di mixité o di cohousing. Con riferimento ai postulati fondamentali della prossemica, mi sembra interessante e fecondo chiamarli spazi sociali. In questi luoghi avvengono infatti le relazioni tipiche dello spazio sociale identificato da Edward Hall (The hidden dimension. Doubleday, Garden City 1966): in questi spazi si costruisce la comunità e si pongono le basi dell’urbanità.

[3] Come è noto, un catalizzatore “interviene in una reazione chimica aumentandone la velocità ma rimanendo inalterato al termine della stessa” (Marco D’Ischia, La chimica organica in laboratorio. Piccin, Padova 2002). In questo senso mi sembra importante distinguere l’ipotesi qui proposta dal concetto di edificio-città presente in varie forme nella tradizione architettonica moderna. I macro edifici proposti da Le Corbusier o da Alison e Peter Smithson, le megastrutture teorizzate da Reyner Banham (Megastructure: urban futures of the recent past. Thames and Hudson, London 1976), i molti esperimenti realizzati in tutta Europa negli anni ’70 proponevano una strategia comune dal punto di vista dell’urbanità: le megastrutture si propongono di fare città sostituendosi a essa; anche quando collocate all’interno di tessuti urbano consolidati, non superano mai il riferimento iniziale a strutture sostanzialmente autonome e paiono transatlantici solo temporaneamente a riposo in un porto. Pur non essendo immune al fascino di queste proposte utopiche, ragiono in questa sede di edifici assai differenti che, pur con ambizioni urbane rilevanti, non si sostituiscono mai alla città.

[4] Giancarlo Consonni, A proposito della commissione per il paesaggio, Arcipelagomilano, 26 aprile 2010. http://www.arcipelagomilano.org/archives/5867

[5] Claudio Colombo (Ed.), Quando l’umanitaria era in via Solari. Raccolto-Umanitaria, Milano 2006.

[6] Steven Gaines, The Sky’s the Limit: Passion and Property in Manhattan. Little, Brown and Company, New York NY 2005.

[7] Giordana Ferri, L’integrazione tra residenza e servizi. In: Ferri G., Pacucci L., Pero E. (Ed.), Nuove forme per l’abitare sociale. Catalogo ragionato del concorso internazionale di progettazione di housing sociale per le aree di via Cenni e Figino a Milano, 32-37. Altreconomia, Cantù 2011.

[8] Tyler Brûlé e Hugo Macdonald Paradise in the city,  Monocle, V, 45 2011.

[9] L’indagine è stata impostata metodologicamente durante il Corso di Dottorato di Ricerca che ho frequentato  presso il Politecnico di Milano ed è poi proseguita negli anni con successive integrazioni e aggiustamenti, Al momento l’analisi si fonda su un archivio di circa duecento progetti di residenza realizzata a partire dagli anni Novanta in Europa. Gli esiti di tale ricerca sono stati via via pubblicati su diversi testi da me curati o scritti negli ultimi anni. Esistono inoltre molti volumi che si occupano di catalogare e recensire gli interventi di urban housing recenti di maggior interesse. Tra i tanti citerei il lavoro di Peter Ebner (Typology +: Innovative residential architecture. Birkhäuser, Basel 2010) sia per aggiornamento che per completezza è chiarezza critica.

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