Premio Europeo di Architettura Ugo Rivolta

I diciotto progetti ammessi alla seconda fase del Premio Europeo di Architettura Ugo Rivolta –  selezionati tra una base di 46 progetti presentati alla prima fase del concorso provenienti da otto differenti paesi del continente europeo – rappresentano una campionatura estremamente varia del panorama dell’housing sociale europeo degli ultimi anni. Risulta quindi abbastanza improprio desumere da un campione così eterogeneo osservazioni più generali sui temi e le direzioni del progetto di residenza sociale nell’Europa contemporanea. Avendo però l’occasione di analizzare sempi che si attestato su di un livello qualitativo sicuramente molto alto è difficile resistere alla tentazione di universalizzare alcune osservazioni. Collocando quindi le questioni emerse da un’analisi comparata dei diciotto progetti finalisti nel dibattito disciplinare degli ultimi anni[1], possiamo provare a definire, senza alcuna ambizione di esaustività, ma con l’urgenza propria del fare progettuale, alcuni temi a cui attribuire valenze più generali.

Per ovvie ragioni economiche i progetti si collocano in aree urbane che possono essere ricondotte al più generale concetto di periferie. In tutti i casi è infatti evidente come la collocazione sia stata determinata dalla necessità di reperire terreni dal valore fondiario non eccessivo, condizione sine qua non per qualunque intervento di social housing. Questa premessa di carattere economico, comune a tutti i casi, porta però a condizioni architettoniche assai differenti, in ragione delle diverse caratteristiche dell’urbanizzazione periferica delle varie città. La differenza principale può essere posta tra le periferie di nuovo insediamento– tipiche della condizione urbana della penisola iberica e dei centri minori italiani –  e quelle delle altre regioni europee, dove è invece protagonista il tema della riconversione urbana. Nel primo caso i progetti si relazionano con riferimenti geometrici rigidi e definiti, spesso caratterizzati dal tema dell’isolato chiuso, tipici soprattutto della schematica tradizione urbanistica spagnola; nel secondo invece prevalgono tematiche di riqualificazione e riconnessione di tessuti residenziali nati nel dopoguerra o negli anni settanta, il cui degrado e la cui repentina obsolescenza ha interessato tanto i casi più ottusi quanto quelli di maggiore qualità. Un terzo caso meno frequente ma di grande interesse  è rappresentato da quei progetti che rientrano nelle previsioni di strumenti urbanistici di scala intermedia utilizzati nella riconversione delle aree industriali dismesse, spesso portatori di vincoli e suggerimenti progettuali ricchi di interesse e complessità.

Le differenti condizioni urbane che caratterizzano le aree utilizzate per la costruzione di social housing portano paradossalmente solo in parte ad approcci progettuali divergenti. Se da un lato appare evidente nei casi spagnoli e portoghesi una ostentata autonomia compositiva dall’intorno anonimo e ripetitivo generato dalla brutale urbanistica di espansione, negli altri casi i progetti si impegnano a costruire relazioni spaziali, visive e funzionali con l’intorno da riqualificare. In quasi tutti i progetti finalisti appare evidente una similitudine di approccio alla composizione dell’edificio, che potremmo definire scultoreo-volumetrico. Osservando tanto gli edifici realizzati quanto le argomentazioni esposte dai progettisti e gli schemi esemplificativi presentati, emerge una comune metodologia di relazione urbana legata alla modificazione plastica di volumi semplici – e più propriamente residenziali – volta a determinarne il rapporto con il contesto. Si pensi in questo senso alla piegatura del grande volume a corte del progetto di De Architekten Cie. a Amsterdam[2], al taglio verticale nella torre di Froetscher Lichtenwagner a Innsbruck, o all’incavo frastagliato dell’altrimenti stereometrico volume di Vázquez Consuegra a Rota. Queste modificazioni, effettuate con una più o meno accentuata indifferenza rispetto al contenuto tipologico e funzionale degli edifici stessi, sembrano prescindere le forme tradizionali del rapporto tra edificio e intorno, rivolgendosi ad una sintassi tradizionalmente propria del progetto di paesaggio.

Questa strategia progettuale trova probabilmente ulteriore motivazione in un relativa indifferenza del progetto alle alternative insediative e tipologiche. Salvo rare eccezioni gli interventi di social housing sono esito di scelte di politica urbana più ampie che definiscono a priori dal progetto la tipologia insediativa da utilizzare o che ne predeterminano fortemente le caratteristiche. I progettisti si trovano quindi a maneggiare tanto le tipologie più tipiche del social housing continentale – isolati chiusi, edilizia aperta ed edilizia a torre – quanto altre meno frequenti – come l’edilizia a schiera o altre varianti di edilizia bassa ad alta densità[3]– cercando di costruire, con il materiale a loro disposizione, le relazioni urbane che ritengono corrette. Se da un lato questo approccio più cinico e realista riporta nel progetto delle periferie una auspicabile varietà tipologica, d’altro canto spiega in parte la notevole disinvoltura – quando non indifferenza – con cui viene trattato il rapporto tra l’impostazione interna degli edifici e la loro definizione volumetrica.

Tanto l’assenza di spazi relazionali e la carenza di percorsi alternativi all’accesso automobilistico –  che continua a segnare, nonostante i molti fallimenti del passato, l’urbanistica di nuovo impianto –  quanto la necessità di recuperare, soprattutto socialmente, aree afflitte da degrado più o meno grave, portano al centro di molti dei progetti analizzati il tema delle relazioni. Quali strategie è possibile mettere in campo nel relazionarsi a intorni costruiti, spesso di scarso valore architettonico e urbano? Quali strumenti utilizzare per contribuire con il progetto architettonico alla costruzione di un’urbanità che sembra essere la chimera dell’edilizia residenziale del secolo appena concluso? A queste domande tutti i progetti cercano faticosamente risposta mediando tra una comprensibile spinta all’introversione – cercando nella definizione di una qualità interna la salvezza dalla città generica –  e il tentativo di utilizzare l’occasione progettuale per attivare circoli virtuosi di riqualificazione.

Nell’interpretare e confrontare gli approcci a questo tema presenti nei progetti finalisti tornano alla mente le molte metafore relative al concetto di rete utilizzate a partire dalla prima metà degli anni Novanta per descrivere il mutare del territorio urbano occidentale sotto la spinta dei cambiamenti sociali ed economici dell’Era dell’Informazione[4]. Il parcheggio-basamento dell’edificio degli EM2N a Zurigo, il rapporto tra edificio, isolato e città del progetto a Bolzano di Cappuccio Donato Macchi Cassia, i rapporti visivi del radicale GuglMugl di Matzinger Hollriegel a Linz sembrano tutti rimandare alla tensione tra nodo e rete propria di questi sistemi. I progetti si configurano quindi come elementi singolari e fortemente identitari, lontani però dall’utopia del quartiere autosufficiente di memoria razionalista e consci, al contrario, della loro interdipendenza dal territorio-rete.

Uno degli strumenti più interessanti per la costruzione di un rapporto più felice tra gli interventi di social housing e la città è da tempo riconosciuto nella collocazione di funzioni altre rispetto alla residenza che garantiscano, insieme ad una densità adeguata, la vivacità necessaria alla vivibilità e alla sicurezza tanto dei nuovi insediamenti quanto dei tessuti in cui i progetti si vanno ad innestare. Nonostante questa nozione sia consolidata nel corpus disciplinare ormai da molti anni, la difficoltà di integrare nel processo politico-economico di costruzione dell’housing sociale funzioni pubbliche – per il loro costo – e funzioni private – per il loro incerto status economico e proprietario – porta spesso i progetti a non poter disporre di questa risorsa, che si mostra, dove presente, quasi sempre risolutiva. Nonostante la loro relativa rarità, pare di particolare interesse rilevare le caratteristiche degli spazi che i progetti dedicano alle funzioni non residenziali per cogliere le direzioni di sviluppo di questo tema cruciale per il successo dei fenomeni di riqualificazione urbana. 

Una prima tendenza che si rileva in alcuni progetti è una nuova libertà nella scelta delle funzioni da insediare; sembrano infatti superate le limitazioni ideologiche e politiche che hanno spesso nel passato determinato queste scelte  a favore di una maggior audacia nella costruzione di cocktail funzionali appropriati al luogo di insediamento – come nel mix supermercato-asilo-ambulatorio-residenza protetta del Centrum Odorf di Innsbruck. 

Una seconda e meno nota tendenza presente in diverso grado nei progetti selezionati è quella volta a ridefinire il rapporto tra privato e comune all’interno dell’edificio.  In alcuni degli edifici  analizzati compare infatti una tensione verso la costruzione di edifici-comunità che da un lato liberino lo spazio domestico privato da alcune attività – riducendone le dimensioni senza penalizzarne la vivibilità – e dall’altro accorpino spazi e risorse di più nuclei abitativi al fine di garantire l’accesso tanto alle funzioni sottratte allo spazio privato quanto a nuovi e più complessi servizi altrimenti eccessivamente onerosi sia sul piano economico che su quello ambientale[5]. I riferimenti principali di questa strategia progettuale sono da rintracciare ovviamente nella tradizione stessa dell’housing sociale europeo, in particolare mitteleuropeo e scandinavo. In alcuni casi questa tendenza è legata alla presenza di utenze fortemente caratterizzate – come nel caso del progetto di Guidarini Salvadeo a Lesmo per abitanti sordociechi, della residenza per studenti di Cappai Segantini a Novoli, della residenza per lavoratori immigrati di AcMe a Verona o dei molti casi di edifici parzialmente o completamente dedicati alle persone anziane. In altri casi però questo approccio viene proposto anche in progetti di residenza sociale generalista, costruendo proposte più o meno estreme : si parte dai locali hobby e dalle sale comuni della Hegianwandweg Siedlung a Zurigo fino alla radicale condivisione di spazi e di valori del GoglMugl di Linz.

Sul piano compositivo e formale, i progetti finalisti del Premio presentano non solo un notevole livello qualitativo, ma anche un sostanziale allineamento alle tematiche di avanguardia del dibattito architettonico contemporaneo. Di notevole interesse da questo punto di vista è l’approccio nei confronti della costruzione del prospetto. In linea con la ricerca che alcuni importanti progettisti portano avanti già da vari anni nella progettazione di edifici non residenziali, in molti degli esempi analizzati emerge una progettazione fortemente grafica e rappresentativa delle facciate degli edifici. 

Nella maggior parte dei casi questo obiettivo viene perseguito introducendo una ostentata aleatorietà del prospetto, ottenuta a volte attraverso l’attribuzione di un forte valore compositivo a dispositivi di oscuramento la cui posizione è variabile e determinata dagli utenti – si pensi alle tende pixelate degli EM2N o al rapporto mimetico persiana-tamponamento dei progetti di Ferrater Mateu a Madrid e di Cappuccio Donato Macchi Cassia a Bolzano – altre volte attraverso la ripetizione apparentemente casuale delle bucature  –  per esempio nel Samer Mösl di SPS architekten a Salisburgo, nel Liulin apartment block di I/O architects a Sofia e in The Whale di De Architekten Cie. a Amsterdam –  o, in un certo modo, attraverso le finestre in lunghezza di Vázquez Consuegra o la lamiera forata di AcMe a Verona. Nel caso del Centrum Odorf di Froetscher Lichtenwagner a Innsbruck questo stesso obiettivo viene perseguito con una strategia differente, unica nel campione dei progetti analizzati, ma riscontrabile in alcuni tra i più interessanti progetti di residenza urbana europea degli ultimi anni. I progettisti scelgono di costruire un abaco delle bucature di facciata che comprende cornici, finestre in doppia altezza e una grande varietà di bucature e serramenti. Questi elementi verranno poi utilizzati in prospetto con criteri solo parzialmente riconducibili all’articolazione funzionale e tipologica dell’edificio; tale strategia si pone esplicitamente lo scopo di interrompere la “successione senza fine di finestre da social housing” che caratterizza le periferie europee e di fornire al progettista un vocabolario più ampio e complesso di quello normalmente a disposizione, costituito di solito da tre tipologie di aperture: una per la zona giorno, una per i locali della zona notte e una per i servizi.

Uno degli aspetti di minor innovazione dei casi analizzati è rappresentato al contrario dai sistemi distributivi degli edifici e dalle aggregazioni degli alloggi. Tranne rari casi, sembrano lontane le ardite sperimentazioni dell’edilizia sociale degli anni Settanta[6], dove alloggi di diversa dimensione e struttura si componevano in complesse aggregazioni servite da sistemi distributivi ibridi, generalmente derivati dalla tipologia a ballatoio. Nella maggior parte dei progetti finalisti prevale una semplice aggregazione in linea con il sistema distributivo a corpo scala e pianerottolo con sporadiche varianti, rese possibili dalle particolari conformazioni dei lotti e dei corpi di fabbrica. Fanno eccezione a questa tendenza generale il progetto di De Architekten Cie. che propone un sistema a ballatoio sfalsato abbastanza complesso, il piccolo progetto di Albori a Cinisello Balsamo che converte il sistema in linea dell’edificio esistente in un ballatoio che distribuisce i nuovi alloggi in copertura e la residenza per anziani di KAW a Eindhoven, distribuita anch’essa a ballatoio.

Al contrario possiamo rintracciare uno spazio di notevole innovazione negli aspetti tecnologici costruttivi, soprattutto in relazione alla crescente sensibilità di tutti i paesi europei ai temi della sostenibilità ambientale. Sembra ormai definitivamente abbandonata l’idea che la forte limitazione di budget che caratterizza l’housing sociale debba necessariamente riflettersi in una tecnica costruttiva banalizzata[7].  Superate le rigidità ideologiche delle sperimentazioni sulla prefabbricazione che hanno caratterizzato molti interventi degli anni Settanta, si procede oggi ad un uso disincantato delle tecnologie messe a disposizione dal mercato globale dell’edilizia, mescolando soluzioni hi-tech e low-tech, materiali innovativi e tecniche tradizionali, con l’obiettivo di ottenere le migliori prestazioni in termini di comfort, sostenibilità ambientale e risparmio energetico, mantenendo il più possibile bassi i costi di costruzione.

Un caso sicuramente di grande interesse da questo punto di vista è l’edificio di Zurigo degli EM2N, dove ad un nucleo centrale in cemento armato, contenente scale e impianti, vengono agganciate strutture prefabbricate in legno per realizzare solette, sbalzi e partizioni esterne. In questo edificio la scelta del legno come materiale da costruzione prescinde qualsiasi ragionamento in ordine al linguaggio dell’architettura[8]e deriva unicamente dalla ricerca di una sintesi tra la sostenibilità ambientale ed economica del progetto. Più tradizionali risultano invece gli approcci di progettisti come SPS architekten che con il  Samer Mösl[9]  – attraverso la costruzione interamente in legno ed attingendo all’elevato know-how dell’industria edilizia austriaca – realizzano un edificio passivo con un più che ragionevole costo di costruzione di 1.360 €/mq. In generale in tutti i progetti finalisti si può rintracciare una più o meno esplicita adesione ai requisiti di sostenibilità ambientale, con una particolare arretratezza da questo punto di vista dei casi spagnoli e, in parte, italiani.

Assai complessa infine appare la possibilità di un’analisi comparata delle strategie progettuali applicate all’alloggio, dove normative dimensionali e igieniche e tradizioni abitative assai diverse rendono i progetti in certi casi assolutamente non confrontabili. Ciò nonostante, anche in questo caso, sembrano emergere, se non delle strategie comuni, quantomeno una comune tensione verso il concetto di flessibilità.

La flessibilità ha assunto un ruolo centrale nel dibattito architettonico sul progetto della residenza ormai da molti anni continuando però a mantenere confini assai labili e definizioni poco operative. Nel tentativo di fare chiarezza su questo tema è opportuno definire i diversi significati che questo termine può assumere; in primo luogo occorre distinguere le strategie progettuali relative all’edificio nel suo insieme da quelle che riguardano l’alloggio: nel primo caso ricadono quei principi compositivi che mirano a rendere mutabili nel tempo forma, dimensioni o utilizzi dell’edificio nella sua interezza mentre nel secondo quelli che pongono le stesse questioni rispetto all’alloggio senza modificare il carattere generale, dimensionale e formale, dell’edificio. 

La forma di flessibilità alla scala dell’edificio si può riscontrare in molti dei progetti finalisti è quella che potremmo chiamare flessibilità metodologica[10]. Con questo termine intendiamo l’adozione di tutte quelle strategie progettuali e quegli accorgimenti compositivi che permettono di condurre il progetto di edifici residenziali complessi attraverso una tecnica che potremmo sintetizzare nella coppia abaco+schema[11]. Vázquez Consuegra a Rota, Paredes Pedrosa a Madrid e molti altri progetti propongono un rapporto tra sistema distributivo e maglia strutturale e impiantistica che permette la distribuzione dei diversi piani introducendo varianti tipologiche con minimo impatto sul progetto generale.

Alla scala dell’alloggio possiamo parimenti identificare strategie più o meno radicali. Da un lato alcuni progetti mirano a costruire edifici la cui configurazione tipologica interna sia mutabile nel tempo, fondamentalmente attraverso lo spostamento di muri divisori e il mutamento del perimetro delle singole unità, mentre dall’altro possiamo trovare molti esempi di progetti che enfatizzano la flessibilità d’uso escludendo l’intervento edilizio a supporto delle mutate necessità. Alla prima tipologia appartengono progetti come quello degli EM2N a Zurigo che prevede la possibilità di riconfigurare completamente le partizioni interne degli alloggi sulla base di una griglia predeterminata; alla seconda appartengono strategie come quella adottata da KAW a Eindhoven dove la collocazione del blocco centrale di servizi è dichiaratamente studiata per permettere un indifferente collocazione della zona giorno verso l’interno o verso l’esterno dell’isolato. Come già espresso dalle molte stagioni felici del social housing che si sono succedute nei diversi paesi europei[12], l’analisi dei diciotto progetti finalisti del Premio Europeo di Architettura Ugo Rivolta – che ha permesso di rintracciare molte tematiche di grande interesse, in questo testo solo brevemente riportate – conferma come la progettazione dell’housing sociale continui ad essere un laboratorio progettuale di grandissimo interesse. Le difficoltà legate ai budget sempre ridotti – anche se assai differenti nelle diverse aree geografiche – , alle restrizioni normative ed alle rigidità dimensionali inducono i progettisti ad una riflessione sulle strategie progettuali spesso al di sopra, per complessità e qualità,  di quelle adottate nell’edilizia residenziale media. 

Originariamente pubblicato in: Edilizia sociale in Europa. Premio Ugo Rivolta 2007, Abitare Segesta, Milano, 2008. 


[1]  Dopo un periodo di relativo oblio del tema residenziale nelle cultura accademica e disciplinare, a partire dalla seconda metà degli anni Novanta il progetto d

ella residenza è tornato protagonista del dibattito, soprattutto in relazione ai temi della città, della densità, dei nuovi diritti e della sostenibilità. Senza pretese di esaustività, alcuni testi di riferimento per la rinascita di questi ragionamenti possono essere considerati le pubblicazioni dei risultati dei concorsi EuroPAN, i testi di Fernandez Per, Mozas e Arpa per l’editore a+t (2005, 2007), le ricerche di Gauza (1998) e alcuni numeri di riviste di settore come la stessa a+t, Lotus, Area e altri.

[2]  In questo caso,. per esempio, nella relazione di concorso i progettisti affermano che “by elevating the building on two sides […] light and space have free access in to the heart of the building”.

[3]  Per un approfondimento sul tema dell’edilizia bassa ad alta densità si veda il testo di Helmuth Schramm (2004) e, per una prospettiva più vicina alla realtà italiana, il testo di Francesca Di Gennaro (2006). 

[4]  Per una più generale bibliografia sui temi dell’Era dell’Informazione si può fare riferimento ai molti testi di Manuel Castells sul tema, in particolare la trilogia dell’Era dell’Informazione (1996-200).

[5]  Nell’edificio progettato secondo i criteri che, utilizzando una definizione proposta da Ezio Manzini (2003), potremmo definire della “casa estesa” coesistono servizi sostitutivi, che vanno ad integrare le funzioni rimosse dagli alloggi, con servizi migliorativi, che aggiungono al complesso residenziale funzioni di particolare qualità. I temi che caratterizzano questi progetti sono principalmente: la flessibilità, intesa in questo caso come la possibilità di mettere in atto strategie di vita adattabili nel tempo, componendo di volta in volta il pacchetto di servizi che in quel momento meglio corrisponde alle proprie necessità ed ai propri interessi; la qualità del servizio, intesa come accessibilità a servizi integrativi caratterizzati da standard di qualità superiori a quelli mediamente raggiungibili nelle configurazioni abitativa tradizionali; lo spazio domestico di uso privato,  liberato da funzionalità e apparecchiature indesiderate e quindi flessibile e riconfigurabile; la socialità interna, che comporta un ripensamento degli spazi comuni, tanto interni quanto all’aperto, in funzione di un utilizzo non solo strettamente funzionale; il rapporto con la città, che si sviluppa soprattutto nei servizi più complessi la cui apertura ad utenti esterni ne permette la sopravvivenza economica e sociale.

[6]  Tra la fine degli anni Sessanta e la metà degli anni Settanta  si realizzarono in tutta Europa alcuni progetti di notevole interesse rispetto a questi temi; progetti assai diversi tra loro ma uniti da una grande qualità architetto

nica e compositiva.  In Italia possiamo ricordare il Nuovo Corviale realizzato a Roma dal gruppo coordinato da Mario Fiorentino, il quartiere Forte Quezzi di Genova del gruppo coordinato da Luigi Carlo Daneri e Eugenio Fuselli o l’edifico Monte Amiata al Gallaratese di Milano di Carlo Aymonino e Aldo Rossi. La maggior parte di queste realizzazioni,  in Italia e nel resto d’Europa,  furono rese possibili dall’intervento pubblico e furono quindi dedicate all’edilizia popolare. Questa caratteristica ne enfatizzò senza dubbio l’aspetto etico e innovativo,  portando però con sé gravi conseguenze sociali che influenzeranno pesantemente lo sviluppo della ricerca architettonica. Risulta oggi difficile poter comprendere quanto il destino di questi edifici,  assurti alla cronaca per il loro degrado né più né meno che la maggior parte delle periferie urbane,  sia determinato da alcune scelte architettoniche e dimensionali,  e quanto,  piuttosto,  sia imputabile alla cattiva realizzazione e gestione degli interventi.

[7]  Fanno eccezione, da questo punto di vista, la realtà iberica e, in parte, quella italiana. In questi paesi da un lato la cultura amb

ientale appare ancora immatura, anche se con importanti eccezioni (si veda la politica catalana ed in particolare barcellonese degli ultimi anni), dall’altro le restrizioni particolarmente marcate di budget (soprattutto in Spagna) e l’arretratezza dell’industria edilizia (soprattutto in Italia) portano i progettisti ad attestarsi su tecnologie costruttive tradizionali e ad accedere solo saltuariamente all’ampio parco di soluzioni tecnologiche che il mercato globale dell’edilizia mette oggi a disposizione.

[8]  I progettisti affermano che “we are not particularly interested in “honesty” in architecture. Wood does not become a theme, it is and remains a building material, just like any other one.”

[9]  All’indirizzo Internet http://195.70.116.20/è possivile vedere in tempo reale il bilancio energetico dell’edificio.

[10]L’orizzonte di molte ricerche condotte a partire dalla seconda metà del XX secolo è la creazione di edifici-organismo in grado di mutare la propria forma e le propria dimensione nel tempo; sebbene queste ricerche siano state ricche di conseguenze sulla cultura disciplinare in generale, hanno trovato molto raramente uno sbocco concreto nell’edificazione corrente: in questo caso, infatti, le difficoltà tanto economiche quanto gestionali che questi progetti pongono sono risultate di fatto insormontabili. 

[11]Questa forma di flessibilità risponde a molte e diverse motivazioni: da un lato questa strategia compositiva permette di gestire progetti molto grandi e articolati, e conseguentemente gruppi di lavoro ampi ed eterogenei, mantenendo un ragionevole controllo concettuale e formale sull’esito finale; in secondo luogo  si coniuga perfettamente con lo sviluppo delle tecnologie di progettazione informatizzata di tipo parametrico, che sempre più si stanno diffondendo nei grandi studi di architettura; da ultimo questa strategie risulta molto gradita ai promotori immobiliari, siano essi privati o pubblici, per la sua capacità di adattarsi all’iter finanziario dei progetti.

[12]Un riferimento inevitabile in questo senso va alla tradizione dell’architettura sociale mitteleuropea tra le due guerre, ed in particolare al caso Viennese (Tafuri 1980).

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